L'auto Usa fa cortocircuito. Colpiti anche i componenti

Pronte tariffe del 25% sulle vetture prodotte in Messico e Canada. È effetto tsunami sulla catena delle forniture globali. Il caso Tesla

L'auto Usa fa cortocircuito. Colpiti anche i componenti
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L'unica cosa certa è per ora l'incertezza. Le tariffe doganali Usa sull'auto hanno aperto una serie di questioni che sembrano destinate a pesare non solo sul settore. La prima incognita ha riguardato l'ambito di applicazione dei provvedimenti. In un primo tempo sembrava che fossero applicati solo sulle auto finite e non sulla componentistica. Poi un portavoce dalla Casa Bianca ha chiarito al Financial Times che non era così e anche le singole parti erano soggette alla tassa del 25%. Si è chiarito anche che erano soggette alla tariffa pure tutte le auto prodotte in Messico e Canada in base al precedente accordo doganale del 2020 (firmato tra l'altro dallo stesso Trump), il cosiddetto USMCA. Il problema è che questo accordo ha creato in pochissimo tempo un'unica grande catena produttiva, disseminata in Stati Uniti, Messico e Canada. Ora si tratta di ricostruire i muri che a suo tempo erano stati abbattuti e di sciogliere i rapporti tra le diverse fabbriche che fino ad ora hanno lavorato per lo stesso marchio.

Allora il principio era che le auto costruite almeno al 75% in uno dei tre Paesi del Nord America e che rispettassero determinate condizioni (per esempio evitassero il dumping salariale a svantaggio degli operai americani) potevano ricevere un trattamento di favore. Ora tutto quello che nasce fuori dai confini Usa deve pagare.

Il Paese più colpito è il Messico che esporta negli Usa 2,77 milioni di auto all'anno. A guardar bene però, circa il 40% delle auto prodotte in Messico è fatto di componenti realizzati negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha dunque dovuto precisare che per applicare le nuove norme si costruirà una metodologia per escludere dal valore della tariffa le parti prodotte negli Usa. Lo stesso vale per il Canada (il 60% delle auto prodotte nel Paese è formato da componenti statunitensi). Il principio vale a contrario anche per le vetture assemblate negli Stati Uniti. In media una macchina venduta come «made in USA» ha il 60% delle componenti provenienti dall'estero. Quindi le tariffe colpiranno (con conseguenti rincari) anche vetture fin qui considerate totalmente a stelle e strisce.

Da questo punto di vista un caso interessante è quello di Tesla. La società, considerata uno dei motivi di orgoglio dell'hi-tech yankee, produce le macchine vendute in America solo in due stabilimenti in Texas e California e ricorre all'import molto meno di colossi come Gm e Ford. Anche nel suo caso, però, le componenti in arrivo dall'estero (nel suo caso Messico e Giappone) rappresentano il 35% del valore delle vetture prodotte.

Prendendo ad esempio il Cybertruck, valore commerciale della versione base 80mila dollari, la tariffa appena introdotta corrisponde a un rincaro di 7mila dollari. Non è un caso che nelle settimane scorse la società di Elon Musk si fosse paradossalmente lamentata dei dazi in arrivo.

Un motivo in più per cercare nuovi fornitori negli Usa? Non è così semplice, dicevano i tecnici di Musk, nella lettera pubblicata di recente: ci sono componenti che nel Paese proprio non si riescono a trovare. Per questo chiedevano «di valutare ulteriormente possibili restrizioni alle catene di fornitura per evitare che i produttori manifatturieri statunitensi fossero oltre modo appesantiti» da «tariffe che avrebbero un costo proibitivo».

Restano le cifre che danno le dimensioni della decisione presa da Trump. Il Messico esporta negli Usa auto per 50 miliardi di dollari (equivalenti al 4% del suo Pil) ma se si considerano anche i componenti il valore più che raddoppia. Poi viene l'Europa con 45 miliardi di export (25 solo quelli della Germania) e il Giappone con 40 miliardi. Fino a ora europei ed asiatici (colo la Corea se la cavava a costo zero) pagavano una tariffa del 2,5%, che si contrapponeva a un dazio delle macchine Usa in Europa pari al 10.

Ora bisogna attendere la reazione dei consumatori. Molte tra le case automobilistiche hanno fatto capire di non poter comprimere ulteriormente i margini, annunciando implicitamente di voler trasferire le tariffe agli acquirenti. Lo scenario più probabile è il rallentamento del settore.

Un report di Deutsche Bank sintetizza l'impressione di molti: «Più si ascolta la Casa Bianca, più si ricava l'impressione che questa sia orientata a sacrificare la performance di mercato e la crescita economica a breve termine pur di raggiungere gli obiettivi che si è prefissa sul lungo periodo».

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