Per l'eterno Sultano il futuro è un campo minato

Erdogan toccherà 25 anni alla guida del Paese. Le incognite economia, geopolitica e diritti

Per l'eterno Sultano il futuro è un campo minato
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Un campo minato. Questo il Paese che il prossimo presidente della Turchia si troverà ad amministrare da stamane, imbrigliato da una doppia tenaglia: finanziaria con la spada di Damocle dell'inflazione sommata al crollo della lira turca; geopolitica con il pericoloso equilibrismo imboccato da Ankara nei confronti di Nato, Cina, Russia e Golfo.

Oggi si apre, di fatto, il quinquennio che porterà il Bosforo a tagliare il traguardo di un quarto di secolo di gestione erdoganiana, nella consapevolezza che le sfide odierne sono diametralmente opposte a quelle passate, non fosse altro perché si mescolano ad una condizione generale che è sensibilmente peggiorata in pochi anni, zavorrata da covid, terremoto e da politiche finanziarie discutibili, senza dimenticare scenari straordinari come la guerra in Ucraina. Il quadro interno è altamente complesso e per ora abbastanza compromesso, con intere sacche di popolazione del ceto medio scivolate verso la povertà: in 24 mesi la valuta nazionale ha perso il 70% del valore nei confronti del dollaro americano, una congiuntura che avrebbe provocato ben altre politiche finanziarie. Mentre alla Banca Centrale turca Erdogan, licenziando tre governatori e nominando suo genero ministro delle finanze, ha imposto di adottare una politica monetaria ultra espansiva data da un costante calo dei tassi d'interesse. Ciò ha prodotto una possente inflazione, con la crescita dei prezzi che ha toccato +40% (a dicembre era stata +85%).

Il nuovo (ma vecchio) governo dovrà muoversi in un complicatissimo puzzle economico dove una domanda repressa di valuta estera si pesta i piedi con le pressioni sulla lira e con un ampio disavanzo delle partite correnti: il tutto mentre gli investimenti stranieri faticano a dare ancora fiducia al sistema erdoganiano considerato poco affidabile, fatto salvo per i «contributi» del Golfo, i cui Paesi lo hanno sovvenzionato pur di sostenere la sua permanenza al potere, mentre magistratura e media restano players non indipendenti.

Erdogan da vent'anni a questa parte ha sempre cercato un riequilibrio ad effetto dopo le sue vittorie elettorali e lo farà anche stavolta per la ricostruzione di quei territori sventrati dal tragico sisma dello scorso febbraio, anche se non si sa attingendo dove. Il quadro esterno è, se possibile, ancora più complesso con la posizione ibrida nei confronti della Nato, le azioni scomposte contro Grecia e Cipro, quotidianamente minacciate per via della presenza di copiosi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, senza dimenticare il rapporto con Israele dove il conservatore e islamista Erdogan, pur in una fase di riequilibrio delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv, resta un antagonista di Bibi Netanyahu per via delle sue frequentazioni amichevoli con Teheran. Inoltre il suo rapporto con Cina e Russia è geopoliticamente costruito in chiave anti occidente.

Il fato ha voluto che le elezioni più vivaci dell'ultimo ventennio sul Bosforo siano coincise con l'inizio delle proteste di Gezi Park: era il 28 maggio 2013 quando un pugno di manifestanti organizzò un sit in di protesta contro la costruzione di un centro commerciale al posto del parco di Istanbul. Quel focolaio in tre mesi si tramutò in una grande crociata contro il regime di Recep Tayyip Erdogan e una corruzione tracotante, che portò alla defenestrazione di buona parte della classe dirigente, ma con la reazione del governo fatta di armi e repressione: 11 morti, 8.200 feriti e 900 arresti.

Solo l'anticamera rispetto ai fatti del luglio 2016, quando un mai chiarito tentato golpe militare venne represso dal governo con la forza: 290 morti, 1440 feriti, 2893 arresti e 2745 giudici rimossi dall'incarico.

Due mesi prima, con le dimissioni del primo ministro Ahmet Davutolu, era venuto meno l'ultimo ostacolo all'autoritarismo di Erdogan. Oggi anche il volenteroso Kilicdaroglu si fa da parte.

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