La libertà di stampa c'è (il diritto di replica pure)

La realtà sul pluralismo del giornalismo italiano: per smentire il report basta andare in edicola

La libertà di stampa c'è (il diritto di replica pure)
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In questi afosi giorni di mezz'estate forse la temperatura obnubila le menti e la polemica spazza via la ragione. Uno dei paradossi è la polemica che si è innestata su un rapporto della Commissione Ue sui rischi che corre la libertà di stampa in Italia che la premier in una lettera alla presidente Ursula von Der Leyen ha giudicato strumentale. Ora senza entrare nel merito della diatriba ciò che appare un enorme paradosso è l'idea che si possano gettare ombre di un presunto regime sull'informazione in Italia, veicolate e a volte estremizzate dai giornali d'opposizione, contestando, però, alla Meloni la possibilità di dire la sua, di criticare queste tesi. Una vera e propria contraddizione in termini: perché si reclama la libertà di stampa, ma si contesta al presidente del consiglio il diritto di replica, la libertà di rispondere. Come se non fosse compito del capo del governo difendere l'immagine di un Paese che non può essere paragonato alla Russia, ma certamente neppure all'Ungheria o ad altri paesi europei dove i giornalisti per fare il loro mestiere rischiano la vita: il ricordo dell'attentato che è costato la vita alla giornalista maltese Daphne Anne Vella è un monito per tutti.

Quindi la replica a certe tesi legittime ma non condivisibili non è solo un diritto ma per chi ha la responsabilità di governo di un Paese è addirittura un dovere.

Del resto basta andare in un'edicola, le poche che sono rimaste, o leggere una qualsiasi rassegna stampa per verificare che in Italia il pluralismo di idee e di opinioni è più che mai garantito. Si parte dal Domani, si passa per il Fatto, si sfogliano la Repubblica e la Stampa, si guarda il Corriere della Sera e si leggono i titoli del Giornale, di Libero e del Tempo o di tanti altri, per accorgersi che ci sono orientamenti diversi e giudizi spesso opposti sui fatti: più che di libertà - faccio una battuta - siamo quasi all'anarchia dei giudizi che è rappresentata in talk show in cui ognuno dice la sua spesso in barba alla realtà. E molti di questi giornali, in un modo o nell'altro, beneficiano anche di contributi pubblici.

Ecco perché la tesi che la libertà di stampa in Italia sia a rischio a me appare azzardata. Certo se fai questo mestiere e critichi qualcuno, a sinistra come a destra, te lo metti contro, ma questa è un'altra cosa. Da noi il pluralismo è più che garantito. Né si può guardare alla Rai, al suo operato, per misurare la libertà di questo Paese visto che da quando è nata la tv pubblica ha una certa acquiescenza verso chi governa, sia di destra o di sinistra. E puntualmente chi è all'opposizione, tocchi alla destra o alla sinistra, protesta. Probabilmente è nel Dna di quella azienda dove ad ogni cambio di stagione politica - naturalmente poi ci sono le eccezioni - lo sport preferito è il cambio di casacca o salire sul carro del vincitore. Come pure le pressioni, pardon, i suggerimenti, i consigli da chi è al governo o occupa le stanze che contano sono quasi fisiologici. Anche da chi meno te lo aspetti.

Quando ero direttore del Tg1, ad esempio, mi arrivò una telefonata inaspettata, senza passare per il centralino, dell'allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (è un aneddoto che ho raccontato con lui in vita) che mi contestava di aver utilizzato il termine «ribaltone» per descrivere il tentativo di Gianfranco Fini di far cadere il governo Berlusconi (siamo nel 2011). Gli risposi che nel lessico politico era ormai comune descrivere il tentativo di un pezzo di maggioranza di far cadere un governo cambiando alleanze proprio con l'espressione «ribaltone». Tanto più che quel vocabolo era stato inventato dallo stesso Fini in riferimento all'operazione messa in campo dalla Lega che determinò la fine del primo governo del Cav e la nascita del governo Dini nel 1995. Non ci fu niente da fare: qualche mese dopo Napolitano diede un'intervista non al Tg1, primo telegiornale del paese, ma al Tg2 all'epoca guidato da un direttore voluto da Fini.

Appunto, così va il mondo e la Rai. Per cambiarne l'indole magari andrebbe privatizzata per tre quinti, finanziando il resto solo con il canone e trasformandola, per usare una vecchia filastrocca di Arbore, nella Bbc. Rimettendo le risorse pubblicitarie nel mercato, rivitalizzando il sistema dell'informazione e salvaguardandone il pluralismo. O magari creare una Fondazione che garantisca l'imparzialità del servizio pubblico. Le idee non mancano. Ma alla fine nessuno ha interesse a cambiare e continueremo nel gioco delle accuse e controaccuse di chi è all'opposizione a chi governa di occupare la Rai.

Accuse che avranno come bersaglio, a seconda delle stagioni della politica, la destra come la sinistra. È fatale. Ormai la Rai è un classico della polemica politica. L'importante è che tutti, a destra come a sinistra, mantengano un minimo di onestà intellettuale.

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