C'è chi lo racconta come lo scenario più temuto e chi, invece, lo auspica come la migliore delle soluzioni possibili. Di certo, c'è che l'inatteso esito elettorale di una tornata amministrativa che sulla carta avrebbe dovuto dire poco, ci consegna un panorama politico di instabilità e confusione. Scricchiolano le coalizioni, da una e dall'altra parte. Con il centrodestra alle prese con una resa dei conti che ormai da anni viene costantemente rinviata a data da destinarsi e il centrosinistra che vede compromesso quel «campo largo» sul quale Enrico Letta avrebbe voluto costruire l'imminente campagna elettorale. Da una parte domina il conflitto - ormai più umano che politico - tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Dall'altra si fanno i conti con la variabile impazzita di Giuseppe Conte, che un giorno minaccia il suo personale Papeete (ma senza avere il coraggio di andare fino in fondo) e quello dopo viene richiamato all'ordine da un Beppe Grillo che quasi sembra commissariarlo.
Un quadro, insomma, di grande incertezza. Tra e dentro gli schieramenti. Al punto che lo scenario di un Draghi dopo Draghi inizia ormai a farsi strada come una delle soluzioni probabili. Alle elezioni politiche, ci mancherebbe, mancano almeno nove mesi e tutto può ancora succedere. Ma è evidente che se dalle urne non uscirà un vincitore è su quello schema che si tornerà a ragionare. Soprattutto se lo scenario geopolitico resta quello che è ora, con una guerra ai confini dell'Europa e una crisi economica che il prossimo anno si farà sentire ben più di adesso. La bussola, insomma, non potrà che essere quella della stabilità. E - ovviamente al netto di quello che vorrà poi fare Mario Draghi - ha un senso che possa essere proprio l'ex numero uno della Bce a continuare a guidare un processo simile. Soprattutto se nei prossimi mesi continuerà a ritagliarsi quel ruolo di leadership internazionale che ormai da qualche tempo sembrano riconoscergli anche i suoi omologhi europei. Certo, Emmanuel Macron e Olaf Scholz sono alle prese con complicate questioni interne e sembrano muoversi sullo scenario internazionale con qualche titubanza. Ma è indubbio che Draghi sia riuscito a riagganciare l'Italia allo storico tandem franco-tedesco (la visita a Kiev ne è stata la conferma plastica) finendo anche per imporre la linea su dossier centrali nella politica europea (dal pressing sullo status di candidato all'ingresso in Ue dell'Ucraina fino alla questione del price cap sul gas su cui ha spinto ancora al G7 che si è chiuso ieri in Baviera).
Ed è proprio in questo scenario che, pur essendo la legislatura in scadenza a marzo, si potrebbe finire per andare al voto con un certa calma, magari a metà maggio (l'articolo 61 della Costituzione dice che le «elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti»). Il che significa che Draghi resterebbe in carica fino a giugno-luglio (nel 2018 dopo il voto ci vollero tre mesi per fare il governo) e, di fatto, sarebbe lui a scrivere la Nadef, la Nota di aggiornamento del Def che va presentata alle Camere entro il 27 settembre di ogni anno.
Se il risultato delle urne, come è possibile, non dovesse individuare un vincitore, è evidente che molti - a partire dal Quirinale - guarderebbero a Draghi. Che dovrebbe semplicemente continuare il lavoro iniziato e perfino già programmato con le previsioni economiche e finanziarie della Nadef 2023. Uno scenario, si diceva, che preoccupa - per ragioni diverse - sia Giorgia Meloni che le due leadership che in questi anni hanno cavalcato l'onda sovranista (Salvini) e quella populista (Conte). La prima perché ha la legittima ambizione di far diventare FdI il primo partito del centrodestra, vincere le elezioni e poi sedere a Palazzo Chigi. Il leader della Lega e l'ex autoproclamato avvocato del popolo, invece, perché sono consapevoli del fatto che se Draghi dovesse restare premier avrebbero margini di manovra davvero stretti (Conte in particolare, che con l'ex Bce ha sempre avuto un rapporto conflittuale). Tifa per il Draghi dopo Draghi, invece, il mondo di centro che proprio in questi giorni sta cercando di riorganizzarsi. In prima linea il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che se ha deciso di arrivare allo strappo in maniera così netta e durante un passaggio parlamentare tanto delicato come quello sull'invio di armi in Ucraina difficilmente lo ha fatto senza confrontarsi con i suoi interlocutori di riferimento. Ma per il bis di Draghi a Palazzo Chigi sono schierati anche pezzi di Pd e di Forza Italia. Che lo vedono come garanzia di stabilità in un quadro politico sempre più caotico e che uscirà dalle urne delle prossime politiche più sfilacciato che mai.
Uno scenario complesso e incerto, che potrebbe spingere il vento di chi invoca una riforma delle legge elettorale in senso proporzionale. Pubblicamente nel centrodestra sono tutti contrari, ma la conflittualità di queste settimane sta dando il là a riflessioni fino a ieri inattese. Perfino dentro Fratelli d'Italia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.