C'è un allarme che si sta spargendo nei palazzi romani, e che mette in ansia segreterie di partito e ministri. L'allarme nasce dalla confidenza che il premier Mario Draghi avrebbe affidato ad alcuni suoi interlocutori - fuori dalla politica - che gli chiedevano lumi sui suoi progetti futuri: «Di qui ce ne andiamo dopo Natale». Il presidente del Consiglio, secondo questi racconti, sarebbe deciso a traghettare il Paese fuori dalla pandemia e dall'emergenza, concentrando le proprie energie sulla campagna di vaccinazioni e l'avvio del Pnrr e la definizione del piano di riforme (giustizia in testa), e poi lasciare Palazzo Chigi. Se per rendersi disponibile alla corsa al Quirinale di inizio 2022 o per fare altro non lo avrebbe detto, ma un messaggio chiaro i suoi interlocutori lo hanno tratto: il premier sarebbe piuttosto deluso e irritato dalle continue beghe e litigi nella maggioranza, dalle gare a marcare il territorio e piantare bandierine politiche su questo e quello, dalla scarsa consapevolezza riscontrata nel quadro politico rispetto alla gigantesca responsabilità che sta davanti al Paese, che ha ora l'ultima chance per compiere riforme tanto profonde quanto difficili per provare a rimettere in moto l'Italia sottraendola ad un declino altrimenti inesorabile. A guardare insomma al futuro e alle nuove generazioni, come ha spesso ripetuto Draghi, e non alle prossime elezioni a Rocca Cannuccia. Del necessario scatto di reni per ora non si vede però traccia, tra un litigio sul coprifuoco e una disfida sulla legge Zan.
Dall'allarme per il possibile addio di Draghi alla cabina di regia del governo nasce anche il crescente pressing editoriale e politico per spingerlo a restare, non solo in Italia ma anche in Europa, dove il nome del premier è considerato l'unica garanzia di credibilità e affidabilità per l'Italia. «Mario resta al governo fino al 2023, vero?», ha chiesto il vicepresidente della Commissione Ue Timmermans a Enrico Letta, solo pochi giorni fa. «Per quanto ci riguarda, il nostro sostegno non è in discussione», ha replicato il leader dem. Che dal canto suo ha tutto l'interesse a evitare cambi a Palazzo Chigi fino a fine legislatura. E al di là delle apparenze, anche Salvini (che ieri ha affermato la sua convinzione che l'attuale governo offra «la garanzia di avere nel premier una figura di indiscutibile profilo e competenza») sa che i suoi parlamentari non vogliono certo correre il rischio di elezioni anticipate, i suoi ministri vogliono continuare il proprio lavoro e l'elettorato produttivo del Nord vuole continuità, e un governo credibile come l'attuale.
Se Draghi invece se ne volesse davvero andare, tutti i piani (manovre per il Colle incluse, con una giostra di candidati veri o presunti e un Parlamento «formicaio impazzito senza nessuno in grado di pilotare», come dice il dem Stefano Ceccanti) andrebbero all'aria. Ecco perché il pressing si sta sotterraneamente spostando sul Quirinale, e sul suo attuale inquilino: Sergio Mattarella ha finora opposto un secco rifiuto a ogni ipotesi di «bis». Ma potrebbe essere l'unico in grado di convincere Draghi al comune sacrificio: lui resterebbe al Colle fino almeno a fine legislatura, e il premier rimarrebbe a Palazzo Chigi. Per poi diventare il candidato naturale alla successione.
In questa luce vengono anche spiegati alcuni strattonamenti e opache critiche mosse a scopo dissuasivo al capo dello Stato da settori di magistratura e politica e da qualche media sulla vicenda Csm. A conferma che quella della giustizia resta la madre di tutte le riforme, e la più ardua.
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