Dopo un 2020 segnato da chiusure obbligate e da vari intralci alla libera iniziativa, quest'anno sta segnando un parziale ricupero. In effetti, i recenti dati Istat sul secondo trimestre vedono un incremento del numero degli occupati intorno all'1,5% (338 mila lavoratori in più). Ben due terzi, però, hanno trovato soltanto un contratto a termine. Come si spiega tutto ciò? Innanzi tutto, tali dati lasciano bene intendere come sia difficile tornare alla situazione precedente alle misure politiche adottate contro la pandemia. Quanti lo scorso anno presentavano il lockdown come una semplice sospensione temporanea delle attività lavorative, sostenendo che poi si sarebbe tornati senza problemi alla situazione di prima, stavano regalando facili illusioni.
La ricostruzione sarà dura, anche perché la crisi ha rafforzato il ruolo dello Stato nell'economia e ha accresciuto indebitamento e spesa pubblica. Oltre a ciò, oggi constatiamo con particolare chiarezza come il nostro diritto del lavoro impedisca quel generale riassetto delle forze produttive di cui c'è bisogno. Quanto è successo negli ultimi 18 mesi ha modificato in profondità lo scenario e ora sarebbe indispensabile che capitali e persone potessero lasciare taluni settori e spostarsi in altri. Questo, però, è davvero tanto difficile in una società regolata com'è quella italiana. In talsenso, l'alta percentuale di occupati «a termine» si spiega agevolmente.
Poche imprese offrono un'assunzione a tempo indeterminato non solo perché il contesto generale è assai incerto, ma anche perché se è quasi impossibile licenziare perfino quando è necessario (si pensi al lungo blocco da cui solo ora stiamo uscendo), non ci si può stupire quando numerose aziende appaiono restie ad assumere un impegno così oneroso. Rendendo arduo il licenziamento, si finisce per disincentivare dall'assumere con contratti stabili. Come simili politiche idealmente schierate a difesa del «posto» siano anti-sociali emerge con grande evidenza anche dal dettaglio dei dati Istat. In effetti, non soltanto i vincoli che dovrebbero proteggere i lavoratori finiscono per ostacolare la creazione di un'occupazione ordinaria, ma tutto ciò penalizza maggiormente proprio i soggetti deboli.
Sempre nel secondo trimestre la crescita del tasso di occupazione è risultata assai maggiore tra i laureati che tra i diplomati, ed è ben superiore in questi ultimi rispetto a coloro che hanno fatto soltanto la terza media. Alla fine ne discende che il tasso di occupazione è del 79,6% tra i laureati, del 63,4% tra i diplomati ed è bassissimo (solo del 43%) tra quanti hanno unicamente la licenza media. Non soltanto quanti sono meno istruiti hanno più ostacoli di fronte a loro, ma lo stesso vale per le donne, i giovani e gli stranieri. Se prendiamo i livelli occupazionali precedenti la pandemia, dobbiamo rilevare che continuano a mancare 678mila posti. Mentre però il dato sui maschi segna soltanto un -2,3%, ben più negativo è quello delle donne (-3,7%). Un'analoga difficoltà incontrano gli stranieri (che segnano un -7,7% rispetto a un anno fa) e i giovani. Non c'è dubbio, infatti, che sono proprio le nuove generazioni a pagare il prezzo più alto di quanto è successo, se si pensa che in questa fascia mancano ancora 199 mila posti. Come sempre, la strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.
E in questo caso bisogna riconoscere che una serie di politiche interventiste e volte a proteggere in modo erroneo i gruppi più deboli ha penalizzato proprio loro, creando quelle rigidità che oggi ostacolano la ripresa e la stessa lotta alla disoccupazione.
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