Politica estera

L'Ucraina resiste per non diventare un'altra Bielorussia

L'Ucraina resiste  per non diventare un'altra Bielorussia

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L'Ucraina resiste per non diventare un'altra Bielorussia

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Chi si ricorda più della Bielorussia? Nell'estate del 2020, dopo lo sfacciato furto delle elezioni presidenziali ai danni dell'opposizione democratica che aveva trionfato, le piazze di Minsk si erano riempite, sabato dopo sabato, di centinaia di migliaia di manifestanti pacifici ma arrabbiati. Una cosa che non si era mai vista in quella che veniva definita «l'ultima dittatura d'Europa»: pretendevano il rispetto del risultato del voto, e che il dittatore se ne andasse. Aleksandr Lukashenko e il suo sodale russo Vladimir Putin, però, la vedevano diversamente: il primo doveva rimanere in sella con l'aiuto del secondo, al prezzo di diventare il suo vassallo.

E questo accadde. Con il decisivo apporto dei russi le proteste furono schiacciate, gli oppositori arrestati a centinaia, i leader democratici costretti all'esilio. Con loro prese la via dell'Ovest anche Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura nel 2015, colpevole di non lustrare gli stivali di Lukashenko. Il quale, come da accordo, rimase al vertice del regime: ma di Bielorussia indipendente, da allora, è rimasto solo il nome. Nei fatti, quel Paese è diventato una provincia della Russia.

Due giorni fa, Lukashenko ha annunciato che anche la Bielorussia, come il vicino Paese padrone, compirà esercitazioni militari con armi nucleari tattiche alla mano «per rispondere alle minacce della Nato». E' l'ultimo capitolo dell'integrazione forzata di Minsk alla politica di guerra del Cremlino. La sola differenza, finora, è che Lukashenko non fornisce truppe a Putin per l'invasione dell'Ucraina. Ma questo accade solo perché l'accordo con il Fratello Maggiore russo prevede che i militari bielorussi vengano adibiti ad altre due funzioni.

La prima è puntellare il regime, che rimane impopolarissimo. La seconda è mettersi a disposizione di Mosca per un lavoro sporco che Putin preferisce non svolgere direttamente: provocare i tre Paesi membri della Nato (Polonia, Lituania e Lettonia) che confinano con la Bielorussia. Aizzare tensioni, rivolgere false accuse di minacce occidentali alla pacifica Minsk, che prima o poi potrà nel più classico schema inventato da Stalin chiedere l'«aiuto fraterno» di Mosca. Ovvero trasformare una finta aggressione subita in una vera arrecata.

L'ipocrisia dietro questo modo di agire è scopertissima. Poche settimane fa, Lukashenko ha chiesto in diretta tv a un suo generale se le truppe bielorusse fossero pronte per un possibile attacco alla stretta di Suwalki, quei 100 chilometri scarsi di confine comune tra Polonia e Lituania che separano la Bielorussia dall'exclave russa di Kaliningrad. La risposta, ovviamente, è stata affermativa. I piani (piani russi) sono pronti.

A questo si è ridotta la Bielorussia.

E a questo si ridurrebbe un'Ucraina inglobata da Mosca: a una provincia russizzata a forza in un incubo di terrore quotidiano, disseminata di campi di concentramento e di basi militari pronte per nuove provocazioni, armi atomiche alla mano, a Paesi da assimilare. In prima fila ci sono la Moldavia e la Romania, il resto seguirebbe: chi s'illude di ottenere la pace con Putin tradendo l'Ucraina, guardi in Bielorussia.

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