Due intense telefonate, due contatti al massimo livello per aprire un varco nel muro di Bruxelles, con Mario Draghi costretto a spendere tutto il suo peso politico per sbloccare una situazione precipitata nelle ultime ore. Un primo contatto tra il premier e Ursula Von der Leyen sarebbe avvenuto venerdì sera, un secondo ieri, mentre il Consiglio dei ministri slittava di ora in ora per dare tempo alla mediazione di sbloccare l'esame critico dell'euroburocrazia che, dicono fonti di governo, «investe intere parti del Pnrr».
La crisi, tutta gestita in una cabina di regia ristretta che ruota attorno al presidente del Consiglio e al ministro Daniele Franco, ha spiazzato gli altri ministri, lasciati all'oscuro per diverse ore di quanto stava accadendo. Al punto che venerdì sera tutti attribuivano i continui slittamenti del Consiglio dei ministri all'opposizione del ministro dell'Economia alla proroga del Superbonus. Una spiegazione monca, perché in realtà sulla necessità di rifinanziare l'ecoincentivo c'era già un accordo: dieci miliardi subito e impegno politico del governo a inserire nella legge di Bilancio gli altri otto necessari fino a fine 2023. Sia la delegazione grillina che Forza Italia, attraverso Mariastella Gelmini, hanno chiesto garanzia al Mef e a Palazzo Chigi e sono stati rassicurati: l'impegno sul rifinanziamento dell'ecoincentivo c'è. «Le nostre richieste, di buonsenso e necessarie per il Paese - chiosava ieri il leghista Claudio Durigon - sono presenti nero su bianco». Tanto che ieri sera Draghi in apertura dei lavori ha annunciato «la green light (luce verde)» anche sul superbonus (come chiedeva Forza Italia), anche se «permangono questioni molto marginali su cui la discussione continua», poi ha ribadito che «senza questa vocazione ambientale e digitale il piano non sarebbe stato accettato».
Solo ieri si è capito che il treno del Recovery plan era rimasto bloccato alla stazione di Bruxelles. E il Superbonus per l'edilizia non è certo il bagaglio più pesante. Secondo fonti M5s nel mirino ci sono le grandi riforme «scritte da Draghi e Franco». Liberalizzazioni, riforma della giustizia e del fisco, tre degli assi più importanti per Draghi che, non a caso, da giorni parla ben poco di vaccinazioni.
A via XX Settembre però la versione è in parte diversa: a Bruxelles sono rimasti sorpresi dall'impostazione di tanti progetti che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero guidare la trasformazione del Paese. I funzionari dell'Ue si aspettavano progetti cantierabili, come sono già quelli ferroviari. Invece, soprattutto nel capitolo relativo alla Missione 1, quella dell'innovazione, della digitalizzazione e del turismo, si rimanda tutto a bandi ancora da scrivere. Una prospettiva che a Bruxelles, dove ben conoscono la lentezza della pubblica amministrazione italiana e la scarsa capacità di concretizzare i progetti con fondi europei, ha scatenato timori atavici. Anche perché all'Italia è stata destinata una fetta cospicua del Recovery fund e gli occhi dei partner europei sono tutti puntati su Roma. Secondo questa versione, il ritardo nella progettazione rimanderebbe alla gestazione al rallentatore del governo Conte e ai mesi di inutili Stati generali e task force. Il Mef non ha mai interrotto l'interlocuzione con Bruxelles ma, oltretutto, la consegna a ridosso della scadenza del 30 aprile sta intasando gli uffici della Commissione con progetti da tutta Europa.
La giornata più difficile per Draghi da quando siede a Palazzo Chigi si è chiusa solo ieri, quando le rassicurazioni su tempi e processi fornite alla Von der Leyen hanno sbloccato il consiglio dei ministri serale, dopo un'attesa di dieci ore.
Il premier, conscio del valore della partita, ha riscosso tutti i crediti maturati nell'epoca del «whatever it takes» per evitare imbarazzanti bocciature. L'obiettivo è che almeno il 90-95% dei progetti ricevano la validazione europea. Risultati al di sotto di questa soglia sarebbero percepiti come una sconfitta.
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