Scade la «deadline» del 31 agosto per il ritiro americano da Kabul e si moltiplicano a livello internazionale le iniziative politiche per gestire la difficile situazione afgana. Una riunione straordinaria dei Paesi del G7, allargata ai rappresentanti di Nato e Ue oltre che della Turchia e del Qatar, si è tenuta in formato virtuale per cercare una linea comune. La minaccia terroristica torna a fare paura, ed è perciò stata evidenziata la volontà di impedire che l'Afghanistan torni a essere un porto sicuro per il fanatismo islamico armato. Si conferma inoltre l'obiettivo di continuare a garantire assistenza umanitaria agli afghani, in particolare ottenendo dal nuovo governo di Kabul il mantenimento della promessa di mantenere un passaggio sicuro per coloro che vogliono lasciare il Paese. L'Italia ha ribadito la propria intenzione di arrivare a coinvolgere nella gestione della situazione la Russia, la Cina e i Paesi della regione (Pakistan e Iran in primo luogo).
E mentre il Consiglio d'Europa ricorda ai Paesi membri il dovere morale dell'accoglienza dei profughi afghani, nelle stesse ore a New York il Consiglio di Sicurezza, dopo una tempestosa riunione ristretta dei rappresentanti dei «cinque Grandi» delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) ha messo al voto e pure approvato una risoluzione che chiede un passaggio sicuro per coloro che dopo il ritiro delle forze americane intendono lasciare l'Afghanistan. La bozza della proposta, concepita in origine da Parigi sulla creazione di una zona di sicurezza nell'area dell'aeroporto di Kabul in cui attuare operazioni umanitarie anche dopo oggi, data del ritiro concordato delle truppe americane, è stata ammorbidita per consentirne l'approvazione di Russia e Cina, che alla fine si sono astenute.
Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti avevano comunque trovato unità d'azione in Consiglio di Sicurezza, elaborando una risoluzione comune, ma il testo non nomina più l'istituzione di una «safe zone». Essa riprende piuttosto i contenuti della dichiarazione firmata domenica da decine di governi di tutto il mondo (ma non dalla Russia e dalla Cina) e afferma che «i membri del Consiglio si aspettano che i talebani aderiscano agli impegni presi affinché gli afghani possano uscire dal Paese in ogni momento, compreso dall'aeroporto di Kabul, senza che nessuno gli impedisca di viaggiare»: impegno che i talebani dicono di voler onorare.
Ieri sera, però, gli stessi talebani si sono detti contrari a una «safe zone», affermando che «la guerra è finita e quindi non ce n'è bisogno». Un ostacolo che sembra difficile poter superare. Del resto ieri gli stessi russi, nel dare a parole la loro disponibilità all'istituzione di una zona umanitaria, avevano precisato che un'intesa con i talebani fosse necessaria.
L'aspetto della zona di sicurezza compare solo in filigrana nel testo della risoluzione laddove «si chiede di rafforzare gli sforzi per fornire assistenza umanitaria all'Afghanistan e si domanda a tutte le parti di permettere un accesso umanitario pieno, sicuro e senza ostacoli dell'Onu, delle sue agenzie e dei suoi partner». A tale riguardo va osservato che in questa fase difficilissima la presenza dell'Onu e delle sue agenzie sul territorio afgano è ridotta all'osso.
È chiaro che, nel momento in cui un voto favorevole del Consiglio di Sicurezza consente di rilanciare l'assistenza umanitaria, l'Onu dovrà affrontare rapidamente due questioni: quella delle sue forze da mettere in campo e quella, di natura più politica e che riguarda gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, di individuare per le Nazioni Unite un ruolo operativo in Afghanistan che eviti fughe in avanti da parte di attori come Russia, Cina e Pakistan, tutti interessati a rapporti privilegiati con il governo talebano.
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