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Meglio gli arabi in casa che un'azienda morta

La nazionalità dei soci non conta. Quello che importa è una compagnia vicina ai clienti e che non pesi sui conti pubblici

Meglio gli arabi in casa che un'azienda morta

La conclusione della vicenda Alitalia, con l'ingresso di un socio «straniero» (gli arabi di Etihad) e la definitiva uscita di scena di ogni logica da compagnia di bandiera, non è certo da avversare o condannare. Per varie ragioni. Intanto l'alternativa non è mai stata tra cessione o italianità, ma tra cessione o morte. Quello che rimane di Alitalia sconta una lunga vicenda di errori, in larga misura connessi al fatto che l'azienda che per decenni ha dominato il mercato italiano del trasporto aereo l'ha fatto in virtù del suo essere di proprietà statale. Come è facile comprendere, le imprese protette sono più facilmente orientate a commettere errori e a non cercare il miglior rapporto tra qualità e prezzo. Chi vive nell'orbita dei centri di potere governativo investe più nei rapporti politici che nella capacità di soddisfare il pubblico.

Oltre a ciò, per le imprese e le famiglie italiane è utile che gli operatori attivi nei nostri aeroporti siano posti tutti sullo stesso piano: che insomma non vi siano favori né privilegi. È la concorrenza che più di ogni altra cosa è dalla parte dei consumatori (come ha dimostrato l'avvento delle compagnie low cost, che ha fatto drasticamente abbassare i costi dei biglietti) e una vera competizione si ha quando le imprese sul mercato sono lontane dalla stanza dei bottoni. Nulla assicura che quanti ora gestiranno Alitalia non provino anche loro a ottenere sostegni, ma tutto questo è più facile per imprenditori italiani, specie se possiedono l'azienda grazie a decisioni politiche assunte al momento della privatizzazione.

In generale, ed è questo l'ultimo punto, è bene chiarirsi le idee sull'imbroglio del nazionalismo economico. Chi oggi parla di «italianità» in riferimento a questa o quell'azienda usa un linguaggio inadatto a interpretare i tempi. Sotto vari aspetti, l'economia contemporanea conosce meno barriere e di conseguenza ogni impresa è orientata ad aprirsi al mondo, cogliendo ovunque opportunità di affari. Quando nella discussione pubblica si parla di aziende «multinazionali» non ci si riferisce più, ormai, a un numero limitato di colossi. E questo perché sono tantissime le imprese (anche di limitate dimensioni) che hanno soci oppure dipendenti, clienti oppure fornitori, collocati in Paesi diversi. In un'economia globale parlare di «italianità» è usare un linguaggio fuori posto.

Pur lontani da vari punti di vista, i teorici liberali e quelli marxisti hanno egualmente compreso che il capitale non ha patria. Le risorse - finanziarie e no - sono mobili e si sforzano di sfruttare questa loro capacità di spostamento. Ma il senso più autentico delle logiche di mercato è in qualche modo chiaro pure a tutti quei nostri concittadini che hanno sempre comprato autovetture con marchio giapponese o tedesco, anche quando alla testa della Fiat c'era l'italianissimo Gianni Agnelli. Tornando al mercato aereo, la speranza - per il domani - è che non vi siano più imprese in grado di ottenere aiuti (a danno dei contribuenti) e trattamenti di favore (a danno di consumatori e concorrenti).

Quindi c'è da augurarsi che l'uscita di

scena della vecchia Alitalia sia l'opportunità per la cancellazione di quegli intralci - dall'assegnazione delle rotte alla proprietà pubblica degli aeroporti - che impediscono lo sviluppo del mercato libero in tale settore.

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