E sei. Dopo Mes, concessioni balneari, dossier migranti, biocarburanti e case green, si apre l'ennesimo fronte tra Palazzo Chigi e Bruxelles. Quello dello stop alla registrazione dei figli di coppie omogenitoriali, indicazione che nei giorni scorsi il governo italiano ha fatto arrivare al comune di Milano, con inevitabile strascico di polemiche. Iniziativa che ieri ci è valsa la «condanna» del Parlamento europeo che, per alzata di mano, ha approvato un emendamento presentato dal gruppo di Renew Europe sullo stato di diritto in Italia. Un provvedimento in cui si sostiene che la «decisione» dell'esecutivo italiano «porterà inevitabilmente alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso», ma «anche e soprattutto dei loro figli». Con l'accusa all'Italia di «violare» i «diritti dei minori» elencati «nella Convenzione delle Nazioni Unite sull'infanzia del 1989». Una presa di posizione che non avrà alcuna conseguenza di fatto, certo. Ma che, politicamente, è l'ennesimo segnale della distanza che si va sempre più allargando tra Roma e Bruxelles.
Con sullo sfondo il Pnrr e i connessi ritardi che da settimane agitano la Commissione Ue, quelli sì con il rischio di ricadute concrete sull'Italia. Il voto di ieri, però, è la conferma di un trend degli ultimi giorni. Con Bruxelles che - nonostante le annunciate barricate di fine ottobre all'avvento in Italia di un governo di destra-centro - si era fino a qualche tempo fa mosso con discrezione. Grazie all'intesa con Washington sul dossier Ucraina, certo. E per merito dei buoni uffici di Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei e il Pnrr, e di Antonio Tajani, ministro degli Esteri. I tanti fronti delle ultime settimane, però, hanno aperto una breccia. Al punto che il gruppo Renew Europe (in cui ha un peso non indifferente il presidente francese Emmanuel Macron) ieri non ha esitato a sparare contro il nostro governo. Tirandosi dietro mezzo di quel Ppe (tutti i nordici, a partire da Olanda, Danimarca e Svezia) con cui l'Ecr (il partito dei Conservatori europei di cui è presidente Giorgia Meloni) immagina di creare un asse permanente in vista delle europee del 2024.
Potrebbero essere dettagli, certo. Ma in prospettiva sono indicazioni che hanno il loro peso specifico. Tutti piccoli pezzi di un puzzle che ai vertici delle istituzioni europee iniziano a guardare con diffidenza. Ne sono consapevoli pure a Palazzo Chigi, anche se Meloni continua a inquadrare la questione sì con preoccupazione, ma soprattutto come il frutto di un approccio «ostile» che non c'era con il precedente governo. Questione che è stata oggetto di un colloquio tra la premier e Mario Draghi, che non sta gradendo di essere tirato dentro le polemiche di questi giorni sul Pnrr.
Con l'ex Bce l'Ue aveva una postura diversa? Verissimo. Ma non si può dimenticare che l'ex banchiere quello standing se l'è conquistato sul campo negli anni del whatever it takes, gli stessi in cui Meloni strizzava l'occhio all'uscita dall'euro definendo l'Ue un «banale comitato d'affari di usurai». Quindi avrà anche le sue buone ragioni Carlo Fidanza, capodelegazione di Fdi-Ecr a Bruxelles, quando bolla l'emendamento di Renew Europe sui figli delle coppie gay come una «sagra dell'ipocrisia» («si parla di leggi che la sinistra non ha mai cambiato quando era al governo»), ma è pur vero che in questi mesi di fronti con l'Ue l'Italia ne ha aperti tanti.
E se su alcuni l'interlocuzione - al netto delle distanze - è comprensibile, su altri - su tutti il Mes - a Bruxelles proprio non ci sentono. Con il rischio di pesanti ricaschi. A partire dal Pnrr. Forse una delle ragioni per cui sui balneari Meloni si sta muovendo per presentare a breve a Bruxelles una proposta di mediazione.
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