Il Consiglio europeo è alle spalle e Giorgia Meloni può ora concentrarsi su una partita il cui secondo tempo si concluderà a Strasburgo solo il 18 luglio, giorno in cui Ursula von der Leyen dovrà passare per le forche caudine del Parlamento europeo. Un passaggio non scontato quello in cui l'Eurocamera dovrà confermare il suo bis alla presidenza della Commissione Ue, soprattutto perché con lo scrutino segreto il numero dei franchi tiratori è sempre piuttosto corposo (cinque anni fa se ne ipotizzarono ottanta).
Saranno, insomma, diciannove giorni di negoziati incrociati, con von der Leyen che cercherà di pescare voti da tutte le parti, dai Conservatori di Ecr fino ai Verdi. E con Meloni che è decisa a stare alla finestra e attendere di capire quali siano davvero i margini di trattativa per il portafoglio che spetterà al commissario italiano. È per questo che giovedì notte, al tavolo del Consiglio Ue, la premier ha chiesto e ottenuto di votare i top jobs europei per parti separate. E ha detto «no» all'indicazione del portoghese Antonio Costa (socialista) e dell'estone Kaja Kallas (liberale) rispettivamente a presidente del Consiglio Ue e Alto rappresentante per la politica estera. Lasciando, però, aperta una finestra di dialogo con von der Leyen. Perché, spiega Meloni, è l'unica nomina che dovrà comunque essere ratificata dal Parlamento Ue e, dunque, la premier è in attesa di «conoscere le sue linee programmatiche» prima di decidere come si esprimerà la delegazione Fdi a Strasburgo.
Un approccio, quello della premier italiana, che a Bruxelles ha sorpreso molti. In tanti, infatti, erano convinti che le lusinghe arrivate dal Ppe (in particolare dal polacco Donald Tusk a dal greco Kyriakos Mitsotakis) avrebbero convinto Meloni a desistere dall'idea di opporsi formalmente al pacchetto di nomine decise da Popolari, Socialisti e Liberali. Ma le cose sono andate in modo ben diverso, con Meloni che giovedì dopo cena si è seduta al tavolo dell'Europa building confermando al suo staff che avrebbe tirato dritto: astensione su von der Leyen, «no» a Costa e quasi certamente anche a Kallas (su cui aveva inizialmente ipotizzato l'astensione). La sessione a porte chiuse, con i ventisette capi di Stato e di governo senza cellulari e senza sherpa al seguito, è stata breve e senza grandi discussioni. Con Meloni che ha ribadito le sue perplessità su «metodo» e «merito» delle nomine. E ha deciso alla fine di dire «no» anche a Kallas, con la quale il rapporto è buono ma che è pur sempre la candidata forte di Emmanuel Macron.
Una mossa che le consente di attendere la trattativa con von der Leyen, tenere unita la maggioranza di governo in Italia e coprirsi sul fronte destro. Sia in casa, dove Matteo Salvini le avrebbe imputato un eventuale via libera. Sia in Europa, dove i polacchi del Pis sono in grande agitazione dentro Ecr e avrebbero avuto un forte argomento di polemica. Per dirla con le parole di Carlo Fidanza, riconfermato capo-delegazione di Fdi al Parlamento Ue, Meloni «non si è fatta normalizzare» e ora «la sinistra riattaccherà con il ritornello stanco dell'isolamento». Argomento che a Palazzo Chigi rimandano al mittente, convinti che il vero negoziato si aprirà nei prossimi giorni. Con Meloni che potrà muoversi con un certo agio, visto che lo scrutinio segreto consentirà a Fdi di scegliere se esporsi pubblicamente.
Con von der Leyen, Meloni ha stabilito un rapporto personale solido, ottenendo anche che si spendesse su partite cruciali come gli accordi con la Tunisia per frenare l'immigrazione clandestina. La premier, però, chiede garanzie sul commissario italiano (che tutti danno ormai scontato sarà il ministro Raffaele Fitto). Nelle aspettative della premier, dovrà avere anche il ruolo di vicepresidente. Non necessariamente esecutivo (quello che a tutti gli effetti può fare le veci del presidente), anche perché questo dipenderà da come von der Leyen disegnerà la prossima Commissione e quanti vice - esecutivi o non - prevederà. Di certo, filtra dalla delegazione italiana, le richieste dell'Italia si alzerebbero se fossero confermate le indiscrezioni di una vicepresidenza esecutiva con delega alla Transizione ecologica per la socialista spagnola Teresa Ribera. Sarebbe, di fatto, una sorta di nuovo Timmermans, una gigantesca apertura ai Verdi in vista del voto di Strasburgo e un segnale politico inequivocabile a favore del green deal.
Insomma, è molto probabile che Meloni auspichi che alla fine con von der Leyen si riesca a trovare un punto di caduta comune.
Anche perché, se Ursula andasse davvero a sbattere in Parlamento, le eventuali alternative non convincono affatto Palazzo Chigi. Questo non significa, però, che in caso di mancata intesa Meloni non sia pronto a votarle contro.
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