Non fatevi fuorviare dalle immagini senili di Kaname Harada: la faccia grinzosa e smagrita, gli occhialoni da miope sul sorriso attonito e imbarazzato dei vecchi che oltre all'ingiuria del tempo devono sopportare anche quello della dentiera. Dovevate vederlo nel 1941, al tempo dell'attacco a Pearl Harbour, nella sua sfolgorante tenuta fuori ordinanza da asso dell'aviazione giapponese. Cuffia di pelle foderata di pelliccia, sovrastata da quegli occhialoni che portavano i piloti dai tempi del Barone Rosso. Il «chiodo» di pelle. La sciarpa bianca. E quello sguardo magnetico da samurai montato su un viso affascinante da duro: un misto di consapevole fierezza e di sfida. Kaname Harada, morto a 99 anni a Nagano, a nordovest di Tokio, non era solo un figo pazzesco. Fu soprattutto l'incubo degli aviatori britannici e americani che ebbero la malasorte, o la cattiva idea, di tagliare la strada al suo «Zero», nei cieli del Pacifico.
Con lui se ne va l'ultimo dei piloti giapponesi che il 7 dicembre del 1941 attaccarono la base americana di Pearl Harbor. Dopo la guerra, quando i suoi sonni cominciarono a virare in incubi, popolandosi dei volti di tutti quei ragazzi che aveva abbattuto, Harada si convertì al pacifismo militante, portando in giro la sua testimonianza. Il rimorso, il sentimento che la guerra è una bestia orrenda, la carrellata di quei volti di ragazzi che lo guardavano dall'oltretomba lo avevano radicalmente cambiato. «Ricordo ancora le loro facce. Persone che non odiavo, e neppure conoscevo», disse una volta, durante un'intervista. «Così la guerra ti priva dell'umanità, obbligandoti a uccidere degli sconosciuti, per non essere ucciso da loro». Fu allora, nel dopoguerra, che Harada maturò la decisione, realizzata nel 1965, di fondare un asilo. «Perché se vuoi chiedere perdono per le vite che hai tolto, non c'è maniera migliore di farlo che allevare nuove vite», lo convinse la moglie.
Partito volontario a 17 anni, Harada aveva chiesto di fare il pilota, risultando primo nel suo corso. Tra il 1941 e il 1942, col suo Mitsubishi A6M (lo «Zero») cancellò dai cieli del Pacifico almeno due decine di aerei nemici. Nel corso della sola battaglia di Midway, ad Harada (è il suo nome proprio. I giapponesi antepongono sempre il cognome al nome) fu accreditato l'abbattimento di sei caccia americani. Ma anche il suo giorno stava per arrivare. Fu durante la battaglia di Guadalcanal che lo «Zero» di Harada venne colpito dal Wildcat, il «gatto selvaggio» dell'asso americano Joe Foss. Riuscì ad atterrare sull'isola di Sant'Isabella, ma nell'impatto si fracassò un braccio. Per il samurai Kaname Harada, la guerra finì quel giorno. Rimpatriato in Giappone, si dedicò all'addestramento dei piloti kamikaze. Poi vennero Hiroshima e Nagasaki, e la fine del sogno imperiale. Harada si dedicò all'agricoltura. Gli incubi, i rimorsi, la «vergogna» per una condotta che molti gli dicevano eroica, ma che lui intimamente aborriva, cominciarono poco dopo. Di qui il suo attivismo militante, in tarda età, contro i partiti nazionalisti che in anni recenti si sono battuti perché il Giappone cambiasse la sua Costituzione, da cui la guerra, come soluzione ai contrasti fra Stati, è esclusa.
Diventato «personaggio» (in Giappone hanno girato un documentario sulla sua vita) Harada viaggiò in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti, incontrando anche Joe Foss, il suo «rivale», la sua bestia nera. Si strinsero la mano, si guardarono dritto negli occhi, si chiesero vicendevolmente perdono, come sanno fare gli uomini veri.
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