I malati hanno sempre ragione. I malati gravi ne hanno di più. I malati che sanno di non poter guarire scelgono fra due strade: il silenzio o la parola, detta o scritta. Per Michela Murgia, scrittrice, non c'è differenza fra la parola detta e quella scritta. Ma in questo caso le parole da lei dette non sono state scritte da lei. È un'intervista, al Corriere della Sera, quella in cui dice: «Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello». E aggiunge: «dal quarto stadio non si torna indietro». Non un tweet, quindi, ma una rivelazione su carta, come sulla carta vivono i libri.
Anni fa il tumore aveva attaccato un polmone, ma era stato individuato a uno stadio «precocissimo», quindi debellato. «Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale. Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove». Ma ora il problema è nato da un rene e «a causa del Covid avevo trascurato i controlli. Mi sto curando con un'immunoterapia a base di biofarmaci», ha spiegato lei. Ricordando a tutti, indirettamente, quanto la pandemia abbia colpito anche trasversalmente l'esistenza di milioni di persone nel mondo, obbligandole ad attendere, a dilazionare gli appuntamenti con i medici. Oggi Michela Murgia non può più attendere, dilazionare, ma non può nemmeno attaccare la malattia, si tratta di giocare in difesa, rinforzando il sistema immunitario. «L'obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti». Insomma, il come è noto, il quanto, no.
Comunque, bastano pochi secondi per un auspicio «politico» a sé stessa: «Spero di morire quando Meloni non sarà più presidente del Consiglio, perché il suo è un governo fascista». Con la premier che replica: «Lei lo auspica, io me l'auguro perché punto a restare a lungo». D'accordo forse per la prima e unica volta, da fronti opposti. Tuttavia Murgia non vuole usare, trattando della malattia, un «registro bellico», perché: «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto o l'alieno. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me».
Infine, una finestra aperta sul dopo, qualunque sia la durata del quanto. «Ho cinquant'anni, ma ho vissuto dieci vite. Volevo anche andare in Corea. Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell'oceano, a Busan». E, soprattutto, la scelta di preparare la partenza preparando la valigia in piena libertà. «E ora mi sposo, con un uomo, ma poteva essere anche una donna. Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa». Non pronuncia quella parola, e non saremo noi a scriverla. Ma non è difficile leggerla in controluce quando afferma: «Chi mi vuole bene sa cosa deve fare.
Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».E poi c'è il sostegno di una «famiglia queer», larga e accogliente. «Ho comprato casa con dieci posti letto dove stare tutti insieme. Ho fatto tutto quello che volevo».
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