Ciao Andrea, ci eravamo sentiti il mese scorso. Ti avevo fatto i complimenti per la tua stupenda figlia Alessia. Poi le solite battute sui colleghi. E giù risate. Però non senza chiederci divertiti: «Ma da 35 anni diciamo sempre le stesse cose?». Era il 1988 quando ci conoscemmo in «Cronaca di Milano»: tu con le orecchie attaccate alla radio sintonizzata sulle frequenze delle «volanti», io con gli occhi puntati sui movimenti dei «nonni» della redazione pronti a fare scherzi a noi «spine» appena reclutate nella «caserma» di via Negri. Abbiamo iniziato a sfotterci e non abbiamo mai smesso.
Nel nostro «stanzone» c'erano «firme» importanti, solo osservandole imparavi ogni giorno qualcosa. Non c'era spazio per le scartine, allora. Tempi in cui quando ti presentavi con 5 magiche parole («Sono del Giornale di Montanelli») leggevi il rispetto negli occhi dell'interlocutore. E sentivi l'orgoglio di fare questo mestiere. Caro Andrea, facevi la nera e il tuo maestro era Paolo Longanesi, figlio del grande Leo (a proposito di cognomi di peso). Hai sempre fatto «la nera» trasformando questo settore-chiave del giornalismo in vocazione professionale e di vita. Hai seguito decine di gialli da prima pagina, diventando a tua volta un esperto del genere noir. Anche per questo eri ospite di trasmissioni tv dove le tue analisi sovente anticipavano gli esiti delle inchieste penali.
Del resto non poteva essere diversamente: anche tuo padre era stato un grande nerista. Lui era orgoglioso di te e tu di lui. Eravate persone generose. Dal carattere difficile. Ma con slanci di umanità rarissimi in chi fa il nostro mestiere dove è facile imbattersi in nani che si credono giganti. Mi commossi il giorno in cui mi regalasti un orologio di tuo padre: «Nino, sono contento di donarlo a te...». Da allora lo porto al polso ed è tra le mie cose più care. Oggi più che mai. Ma che «scazzi» tra noi. Disprezzavi chi si occupava «di bianca»: sul punto ci siamo accapigliati come bambini che si contendono il pallone.
E bambini siamo sempre rimasti, anche se quel nostro «pallone» si è trasformato - soprattutto negli ultimi tempi - da fiammante «Super Santos» in sbiadito «Super Tele», ma senza «Super»: troppo leggero, insignificante. La nostra ultima telefonata si era conclusa con una reciproca promessa: «Quando morirò, non ti azzardare a scrivere il mio necrologio...». Ma le promesse, si sa, sono fatte per non essere mantenute.
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