Per lei sono scesi in campo i big del partito democratico, ma ora è tutto nelle sue mani: nei prossimi cento giorni Hillary Clinton deve convincere gli americani, ancora incerti e incuriositi, se non ammaliati, dal fenomeno Donald Trump, che è la persona giusta per varcare i cancelli della Casa Bianca nel gennaio 2017. Nel quarto e ultimo giorno dei lavori al Wells Fargo Center a Philadelphia, la regina del partito dell'Asinello sale finalmente sul palco dopo alcune fugaci apparizioni dal vivo o in remoto per accettare la nomination. L'Arena la acclama con un'ovazione, per concederle, dopo le divisioni e le polemiche dei giorni scorsi, la sua chance di conquistare la posizione di Commander in Chief e farsi carico della importante ed ingombrante eredità che sta per lasciare il suo ex rivale e al contempo il suo più importante «azionista», Barack Obama. E allo stesso tempo, di assumersi la delicatissima responsabilità di fermare il ciclone Trump e di impedire che il Paese cada nelle mani di quello che è considerato dal popolo Dem e non solo «il peggior nemico della prima democrazia del mondo».
A far rompere gli indugi e superare gli steccati ideologici interni al partito è stata probabilmente l'onda emotiva creata nei giorni passati da alcuni oratori chiave saliti sul palco. A partire da un conciliante Bernie Sanders, da una entusiasmante Michelle Obama, da un rassicurante Joe Biden, e soprattutto dal presidente Obama. L'inquilino della Casa Bianca è scatenato: assicura a Hillary un appoggio caloroso, mentre sferra attacchi incrociati al candidato repubblicano, sottolineando che «nessun muro potrà mai contenere il sogno americano». «Non c'è mai stato nessuno più qualificato di Hillary per essere presidente degli Stati Uniti», chiosa Obama passando di fatto il testimone alla sua ex rivale, ora alleata nella battaglia contro Trump. «Hillary è meglio di me, è meglio di Bill. Spero che Bill non me ne voglia» dice mentre Bill approva ridendo e applaudendo in tribuna. E poi: «Niente è in grado di prepararci allo Studio Ovale, fino a che non ci si siede a quel tavolo non si sa cosa vuole dire gestire una crisi globale o inviare giovani in guerra - continua, tra gli applausi di un pubblico in visibilio - Ma lei nella stanza c'è stata, ed è stata parte di queste decisioni».
L'oratoria di Barack conquista ancora una volta la platea, che lo acclama con affetto mentre lui ripropone tutti gli slogan delle sue memorabili campagne elettorali, da «Yes we can» a «Hope», fino a «Change». Ma oggi gli ultimi sondaggi che danno il tycoon in pericoloso vantaggio sull'ex first lady hanno gelato i democratici, e abbandonate le frizioni interne ora l'obiettivo è solo uno, vincere la Casa Bianca. Per questo i grandi del partito che si alternano sul podio durante la kermesse cercano di fare a pezzi The Donald. Uno degli attacchi più duri arriva dall'ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che definisce il re del mattone un «pericoloso demagogo» e attacca: «Anche io sono un newyorkese, e quando vedo un impostore lo riconosco». Il magnate dell'informazione parla da decano degli affari, e si rivolge agli indipendenti chiedendo di «unirsi non alla lealtà verso un partito, ma all'amore per il nostro Paese, votando Hillary Clinton». A introdurre sul palco l'ex segretario di stato è la figlia Chelsea, impegnata in una sfida a distanza con l'amica-nemica Ivanka Trump, la quale ricorda come la madre non sia «interessata ad una retorica divisiva e bigotta».
Hillary, raggiante come da copione, non lesina saluti agli amici nelle prime file del floor, è un tripudio di sorrisi e applausi.
L'aspirante prima presidente donna degli Usa cerca di convincere il popolo Dem con un discorso pragmatico: si appella all'unita partito e punta sul suo ruolo di «change maker», cercando di demolire quel muro di diffidenza che c'è nei suoi confronti, e tentando di convincere gli elettori che non solo è in grado di raccogliere l'eredità del predecessore, ma che farà qualcosa in più.
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