Ragusa «Il nostro suggerimento è che vi mettiate in contatto con Rcc Malta, perché è il porto più vicino e il più logico e quello che dovreste tentare è parlare con Malta, per sbarcare queste persone a La Valletta». Così il 15 marzo la Mrcc Madrid in teleconferenza telefonica con il comandante della Open Arms, la nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms che aveva a bordo 218 immigrati, raccolti in mare malgrado la Guardia costiera libica avesse assunto il coordinamento dell'evento Sar. Il comandante risponde: «Se tu mi dici di chiamare La Valletta e di andare lì lo faccio (ma non lo fa, ndr). Non abbiamo però mai sbarcato a Malta e non capisco perché mi chiedi di andare a La Valletta se so che mi diranno di no».
È, secondo la procura di Catania, che ha indagato Reig, la responsabile della missione e il capo delle operazioni della Ong per associazione per delinquere (capo di imputazione poi caduto) e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, la prova che «gli indagati abbiano dimostrato di volere comunque e a prescindere dallo stato di necessità recuperare i migranti e portarli in Italia, e ciò anche a costo di disattendere le precise indicazioni delle autorità preposte e le normative nazionali ed internazionali che regolano la materiaZ. E ancora: «È emersa un'univoca e reiterata volontà degli indagati di fare giungere in Italia i migranti recuperati». Un dato confermato anche dal gip di Ragusa, procura a cui è passata l'inchiesta per competenza territoriale essendo venuta meno l'accusa di associazione per delinquere.
Dunque sia il magistrato di Catania sia quello ibleo concordano sul fatto, incontrovertibile, che gli operatori umanitari non volessero approdare a Malta, porto sicuro più vicino, distante solo 3 miglia nautiche dalla nave Ong, ma mentre per la procura etnea ciò «fa venire meno la scriminante del soccorso di necessità, realizzando gli estremi del reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina», il gip ibleo giustifica l'operato visto che La Valletta è solita «non rispondere alle richieste di soccorso», e inoltre l'Italia si era messa a disposizione per un approdo se la richiesta fosse giunta dallo stato di bandiera della Ong.
«We go to Italy» dice un soccorritore agli immigrati di un gommone. È scritto sulle annotazioni di polizia giudiziaria riguardanti l'esame dei filmati delle telecamere di sorveglianza della Open Arms e dalle telecamere dei soccorritori e dei membri dell'equipaggio. La Guardia costiera libica parla al megafono e richiede i migranti, ma i soccorritori si affiancano al gommone e procedono al salvataggio. «Big boat go to Italy» ripete un soccorritore. E i libici minacciano l'uso delle armi. «I wait you three minutes», dopo sembra che dica «I kill you». Le annotazioni concludono che ci sono stralci di conversazione in inglese e spagnolo non decifrate e «non si dà atto dell'uso o della minaccia di armi». Tutti documenti presi in esame dalla procura iblea che però, contrariamente a quella etnea, che ha deciso di proseguire le indagini, fa venire meno il fumus commissi delicti anche alla luce del fatto che gli immigrati vanno destinati in un porto sicuro. E questo, data l'instabilità attuale, non può essere la Libia.
Seguendo quest'ultimo ragionamento, sembra venire meno l'accordo tra Italia e Libia con la fornitura alla Guardia costiera del governo libico riconosciuto dall'Onu di mezzi e uomini addestrati dall'Italia per controllare le coste libiche.
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