L'annuncio arriva adesso, pochi giorni dopo l'abbandono del teatro di operazioni dove la svolta sarebbe stata più utile: i droni, che in Afghanistan le forze italiane hanno potuto usare solo nella versione da ricognizione, potranno d'ora in avanti essere armati con missili aria-terra, come già accade per diverse forze occidentali, Stati Uniti in testa. Una svolta che le truppe tricolori attendevano da tempo ma che finora era stata frenata dal velo di ipocrisia che avvolge le missioni italiane all'estero, dove la finalità di peace keeping viene accompagnata anche da modalità belliche. Ma per combattere, ricordavano i nostri uomini in zona, servono le armi.
L'annuncio è stato dato, a dire il vero, in maniera piuttosto sommessa, con un breve passaggio inserito nel Documento programmatico pluriennale del ministero della Difesa, reso noto ieri dalla Rivista Italiana Difesa, che ha dato conto sia dei dubbi «etici» che finora avevano sconsigliato il provvedimento, sia dei nuovi scenari che l'armamento dei droni apre per l'utilizzo delle nostre forze armate in scenari «a più alto contrasto militare».
Il documento del ministero retto dal pd Lorenzo Guerini non entra nel dettaglio del tipo di armamento di cui verranno forniti gli «Uva» (il nome tecnico dei droni militari) Male, Reaper e Predator attualmente in uso al Trentaduesimo stormo dell'Aeronautica Militare. É un dettaglio delicato, perchè i sistemi d'arma destinati ai Reaper sono di produzione della General Atomics americana, che può fornirli a reparti esteri solo dietro alla autorizzazione della casa Bianca: e proprio questa autorizzazione aveva negli anni scorsi tardato a venire concessa, a riprova dei dubbi che Oltreoceano si nutrivano sulla capacità italiana di custodire efficacemente segreti militari hi-tech. Tanto che Leonardo per i suoi droni sperimentali dovette ripiegare su armamenti di produzione turca.
Ora l'annuncio del Documento programmatico sembra dire che insieme agli ultimi scrupoli di coscienza italiani sono venute meno anche le perplessità americane sulla vulnerabilità del nostro apparato difensivo. E se ne deduce anche che sono arrivate le disponibilità economiche ingenti necessari a trasformare i droni tricolori in macchine da guerra volanti. Sulla tecnologia radiocomandata l'Italia ha già investito in modo cospicuo, non ci sono cifre ufficiali ma il totale dell'investimento in droni sfiora se non supera il miliardo di euro: uno sforzo economico notevole e accompagnato anche da qualche polemica, come quella suscitata nel 2012 dalla decisione dell'allora ministro Roberta Pinotti di investire sui droni di produzione italiana, i P2Hh della Piaggio di Pontedera: che però tanto italiana non è essendo controllata dal fondo Mabudala degli Emirati Arabi. Andò a finire che un prototipo P2Hh si inabissò in mare durante i collaudi, tra l'ilarità di chi denunciava i rapporti privilegiati tra Madubala e i piani alti della nostra aeronautica.
Che i nostri droni fossero finora degli osservatori disarmati non ha impedito che venissero presi di mira da elementi ostili: un Mq9 del Trentaduesimo stormo venne centrato e abbattuto mentre partecipava all'operazione «Mare Sicuro» da una batteria libica. Di fatto, gli apparecchi italiani sono a tutt'oggi bersagli indifesi, e questo - soprattutto nelle zone più a rischio - ha limitato molto la loro utilità.
Sempre secondo la Rivista Italiana Difesa, «la non disponibilità di armamento a bordo dei Predator/Reaper ha più volte messo a rischio la vita dei nostri soldati a terra, con perdite che altrimenti potevano essere evitate».Droni armati, ma con la bandiera a stelle e strisce, continuavano intanto a partire dalla base americana di Sigonella, in Sicilia, verso i teatri di operazione. Ma la coscienza era salva.
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