La parabola di Pavlovsky: da consigliere a detrattore dello Zar

Scontò il sostegno al secondo mandato di Medvedev anziché al ritorno di Putin presidente

La parabola di Pavlovsky: da consigliere a detrattore dello Zar

Gleb Pavlovsky, morto ieri a 71 anni a Mosca dopo una grave malattia, era stato a modo suo una voce libera in un Paese illiberale. Nell'arco di un mezzo secolo, aveva attraversato un'articolata sequenza di posizioni politiche dapprima molto scomode, per poi approdare al ruolo di consigliere politico dei nuovi leader della Russia post sovietica e concludere la sua parabola da oppositore di quello stesso Vladimir Putin il cui potere aveva contribuito a consolidare. Nelle vicende di Pavlovsky, che era nato a Odessa in Ucraina nel 1952, non erano mancati aspetti controversi. Impegnato già da universitario nella dissidenza, era stato arrestato nel 1982 e condannato a tre anni di confino: al processo si era dichiarato colpevole e aveva testimoniato contro alcuni colleghi, una scelta che non gli era mai stata perdonata negli ambienti dell'opposizione. Tornato libero a Mosca nel 1985, l'anno decisivo in cui Mikhail Gorbaciov prese il timone dell'Unione Sovietica, Pavlovsky si schierò nel suo campo riformista. Ormai attivo come consulente politico, dopo il collasso dell'Urss alla fine del 1991 collaborò con l'astro nascente Boris Eltsin e fu tra gli ispiratori della campagna di rielezione che cinque anni dopo gli permise di mantenersi in sella. Fu lo stesso Eltsin, d'intesa con l'ambizioso oligarca Boris Berezovsky, a scegliere l'allora semisconosciuto Putin come suo successore alla presidenza della Russia, e anche qui Pavlovsky svolse un ruolo importante nella sua individuazione quale figura di garante degli interessi della famiglia Eltsin nella fase di transizione del potere e per la sua vittoria elettorale del marzo 2000. Negli undici anni successivi, con Putin al Cremlino, Gleb Pavlovsky mantenne il ruolo di suo consigliere politico e spin doctor. Fu lui a contribuire a forgiare l'immagine di successo di Putin come uomo forte e anche a tirar fuori dal cilindro il filosofo ultranazionalista Aleksandr Dugin e a proporne le infauste idee a un presidente alla ricerca di una propria ideologia. L'ex dissidente elaborò una nuova «dottrina per la sicurezza dell'informazione» che permetteva di mettere nel mirino «agenti che rappresentavano una minaccia agli interessi nazionali» come Berezovsky e Vladimir Gusinsky.

La parabola di Pavlovsky si chiudeva cupamente, ma tutto questo non gli impedì di essere estromesso, sembra per eccessiva vicinanza alle ambizioni di Dmitry Medvedev: era il 2011, e dopo di allora si trasformò in una voce sempre più critica del regime di Putin, fino a contestare la scelta di invadere l'Ucraina. Pavlovsky salvò la vita, a differenza tra gli altri di Berezovsky e di Boris Nemtsov, di cui oggi cade l'ottavo anniversario dell'assassinio a Mosca.

Ieri coraggiosi attivisti hanno portato fiori e candele ai piccoli memoriali che lo ricordano non solo sul luogo del delitto, ma anche in altre città russe. Sono gesti di resistenza sempre più rischiosi: ci sono stati diversi fermi, ma per ora solo un arresto.

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