Cambiano gli attori, ma il Grande Gioco, come lo chiamava Rudyard Kipling, resta lo stesso. E incoronerà come un secolo e mezzo fa, la grande potenza capace di collegare l'Asia al subcontinente indiano attraverso i passi e gli altopiani dell'Afghanistan. Nella seconda metà dell'800, gli unici veri signori di quell'impervio scacchiere erano gli imperi di Russia e Inghilterra. Oggi, dopo l'auto-eliminazione di un'America pronta alla frettolosa rotta da Kabul, i veri signori dei territori disseminati tra il Khyber Pass, l'Hindukush e i deserti di Herat potrebbero diventare i cinesi. Lo si è capito ieri, al termine dell'incontro nel porto di Tianjin, tra il ministro degli Esteri di Pechino Wang Yi e la delegazione talebana guidata dal mullah Abdul Ghani Baradar, ex-ministro responsabile dell'ufficio di Doha attraverso cui l'organizzazione fondamentalista gestisce i rapporti internazionali. L'incontro, a 48 ore dai fallimentari colloqui tra Wang Yi e una delegazione americana, fa capire a Washington che Pechino è pronta a subentrarle ovunque. Soprattutto in Afghanistan.
Controllare l'Afghanistan, grazie anche alla consolidata alleanza con il Pakistan, permetterebbe alla Cina di soverchiare economicamente, politicamente e strategicamente il tradizionale nemico indiano. E le garantirebbe continuità strategica con gli altri due avversari degli Usa: Russia e Iran. Una continuità geo-politica capace di garantire un scudo a Pechino sul fronte occidentale in caso di scontro con gli Usa nel sud del Pacifico.
Ma la chiusura del Grande Gioco regalerebbe a Pechino anche un'indiscussa egemonia regionale trasformandola nel principale gestore di commerci e scambi energetici. Anche perché le aziende cinesi attendono soltanto di far diventare operativi i contratti - già firmati - con cui si sono assicurate lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio, rame e metalli rari disseminati tra pietraie e deserti afghani.
Per chiudere il Grande Gioco e sfruttarne le potenzialità bisogna riuscire a imporre la pace. Un obbiettivo mai raggiunto da inglesi, russi e americani. Un obbiettivo apparentemente assai ostico anche per i cinesi costretti a confrontarsi con la questione uigura. La spietata opera di deportazione e repressione della minoranza musulmana in una regione dello Xinjiang che confina - attraverso il corridoio del Wakhan - proprio con l'Afghanistan rappresenta un'autentica minaccia per la stabilità interna cinese. Le formazioni dell'estremismo uiguro, inquadrate nei ranghi alqaidisti di Etim (Movimento Islamico dell'Est Turkmenistan) operano da anni sui territori di Kabul d'intesa con i talebani.
Prima di sostituirsi agli americani e imporsi come l'unico protagonista del «grande gioco» Pechino deve, dunque, evitare di portarsi l'Afghanistan in casa. Per riuscirci deve disinnescare quelle connivenze tra talebani e uiguri capaci di moltiplicare le attività dei gruppi armati uiguri già attivi nello Xinjiang trasformandoli in un'incontenibile minaccia interna. Proprio per questo il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha approfittato dell'incontro di Tianjin per chiedere alla delegazione talebana di «tagliare completamente i legami con tutte le organizzazioni terroristiche». Un invito diventato ancor più esplicito quando Wang Yi ha espressamente citato Etim, ovvero la sigla del gruppo armato uiguro. «Occupatevi di loro in modo risoluto ed efficace - ha detto il ministro cinese - per rimuovere gli ostacoli alla sicurezza regionale, alla stabilità, alla cooperazione, svolgendo un ruolo positivo e creando condizioni favorevoli allo sviluppo».
Parole a cui i talebani hanno risposto garantendo che «il suolo afghano non verrà usato contro la sicurezza di nessun Paese». Ma ovviamente si tratta di parole.
Parole con lo stesso peso di quelle usate dai nipotini del Mullah Omar per garantire agli americani un cessate il fuoco durante la fase del ritiro. Una mancata promessa grazie alla quale sono vicini a controllare i tre quarti del paese. Mentre gli ultimi soldati americani attendono ancora di chiudere lo zaino.
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