Più investimenti in Usa? È un affare

I colossi tricolori nell'energia e tecnologia hanno interessi negli States da coltivare

Più investimenti in Usa? È un affare
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Sono in errore i commentatori dell'incontro tra la premier Meloni e il presidente Usa Trump che ritengono poco vantaggiosa la promessa italiana di aumentare gli acquisti di gas e armamenti dagli Usa, ma soprattutto quella di investire 10 miliardi di euro negli States. Gli Usa sono già uno dei principali fornitori energetici dopo la guerra in Ucraina e la produzione di sistemi di difesa - per quanto sia un vanto (troppo spesso celato) del made in Italy - non è purtroppo sufficiente a equipaggiare forze armate che devono aumentare gli equipaggiamenti.

Ma non è questo il punto. Alcune analisi hanno giudicato poco commendevole l'aumento degli impegni delle nostre aziende verso Washington. In realtà, dei tre programmi di spesa è l'unico che può essere raggiunto più facilmente. Anche se, sul mercato, tutto ha un prezzo. Probabilmente è un difetto delle lenti con le quali si guarda la nostra economia, giudicata spesso negativamente anche se rappresenta onorevolmente la seconda manifattura europea e uno dei cardini del G7. L'Italia è un Paese di multinazionali. Molte sono tascabili ma non poche sono di dimensioni notevoli. A partire dalle partecipate pubbliche. Basti pensare a Leonardo, il nostro colosso del settore difesa, aerospazio e cybersecurity. Da anni è presente negli Usa dopo l'acquisizione del produttore di elicotteri Drs. Negli States vengono prodotti molti sistemi elettronici di difesa oltre ai velivoli, far crescere la presenza è solo questione di rimodulare i programmi. Sempre per restare nell'ambito del Tesoro, basta guardare al nostro gigante energetico Eni: negli Usa estrae petrolio, gas e possiede parchi eolici e fotovoltaici. Anche in questo caso un maggiore impegno non è un problema. Lo stesso discorso vale per Enel, impegnata anche nel nucleare.

Lo stesso discorso si può fare per le aziende private. Il vicepresidente esecutivo di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, già da tempo ha annunciato l'intenzione di aumentare gli investimenti visto che il 20% dei ricavi (1,3 miliardi) viene dagli Usa. Brembo, produttore bergamasco di freni (altra nostra eccellenza), opera da anni nel Michigan per essere vicino al distretto dell'auto, inclusa Stellantis (che è un po' italiana ma è lì già da tempo con Chrysler). Uscendo un momento dall'automotive per entrare in un'altra specialità come l'alimentare non si può trascurare come Ferrero e Barilla competano non solo sul mercato domestico ma anche su quello Usa dove sono presenti con più marchi e l'impatto sui ricavi - grosso modo - non dovrebbe essere troppo distante dal 20%. Analoga importanza gli Stati Uniti rivestono per aziende leader della farmaceutica (Menarini, Chiesi) e della chimica (Mapei, Kerakoll) che lì hanno stabilimenti. Non è il caso di citare Ferrari e Prada. Non hanno bisogno di investire direttamente (anche se l'azienda del lusso ha un centro di riciclo negli States) perché si rivolgono a una clientela premium e la loro elevata quota di mercato può essere solo intaccata. Resta solo due problemi da risolvere.

In primis, non tutte le filiere come la ceramica di Sassuolo hanno la forza di portare la produzione negli Usa. In secondo luogo, potenziare le fabbriche americane significa produrre meno qui. Con tutto quel che ne consegue.

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