Ha messo piede in una scuola per la prima volta ieri, all'età di 11 anni, in una località del nostro Paese che per ragioni di sicurezza è meglio tenere riservata, dopo un'infanzia isolata, le minacce e la fuga dai talebani. Sogna ancora di diventare un calciatore, «proprio come Messi». E al Giornale rilascia le sue prime parole da rifugiato: «Grazie Italia. Sono entusiasta di poter ricominciare a giocare a calcio, iniziare a studiare e fare nuove amicizie. Finalmente vedo di nuovo il mio futuro con ottimismo». Lui è Murtaza Ahmadi, 11 anni, arrivato nel nostro Paese una settimana fa grazie ai corridoi umanitari co-organizzati da Caritas Italia con il via libera del Viminale e grazie all'aiuto di Start Insight, società svizzera di consulenza, analisi e ricerca presieduta da Chiara Sulmoni e diretta da Claudio Bertolotti. Finalmente al riparo nel nostro Paese dalla furia degli integralisti islamici.
Murtaza non è un ragazzo qualunque. Nel 2016 aveva commosso il mondo con una maglia fai-da-te, improvvisata dal fratello con una busta di plastica biancoceleste, i colori dell'Argentina, il numero 10 e il nome del suo idolo scritti con un pennarello, simbolo della povertà e dei sogni dei bambini dell'Afghanistan. Allora di anni Murtaza ne aveva appena 5, ma andava già pazzo per il calcio. Per questo lo avevano ribattezzato il «Messi d'Afghanistan», immortalato mentre sgambettava sui terreni polverosi della provincia di Ghazni, 150 chilometri a sud di Kabul. La sua storia aveva talmente colpito l'asso argentino, Lionel Messi, che il campione lo aveva voluto incontrare e accogliere in campo nel 2016, in occasione di un'amichevole del Barcellona, il club per il quale giocava allora, e gli aveva regalato due magliette autografate, una del Barça e l'altra dell'Argentina. Di anni ne sono passati circa sette da quel momento. Oggi Messi gioca nel Paris Saint-Germain e i talebani sono tornati al potere in Afghanistan, nell'agosto 2021. Ma al piccolo Murtaza, non hanno mai smesso di dare la caccia. Per due ragioni. «È membro degli Hazara, gruppo etnico che rappresenta circa il 10% della popolazione in Afghanistan. Sono sciiti invisi ai talebani e allo Stato islamico Khorasan», ci spiega Claudio Bertolotti, direttore e fondatore di Start Insight, che si è prodigato per l'uscita di Murtaza dall'Afghanistan. L'altro motivo per cui l'Afghanistan non era più un luogo sicuro per «il piccolo Messi» era anche il rischio di rapimento. Convinti che il bimbo avesse ottenuto denaro dal campione argentino e che potesse dunque essere rapito, in cambio di un lauto riscatto, i talebani consideravano ormai Murtaza un bersaglio, anzi un ghiotto bottino. Non a caso, subito dopo il ritiro americano e il ritorno al potere degli studenti del Corano, il bimbo era tornato a implorare il suo idolo Messi, con indosso la sua maglia e un chiaro messaggio: «Sono intrappolato in casa e non posso uscire perché ho molta paura dei talebani. Ti prego, salvami da questa situazione. Voglio giocare a calcio e farlo in pace, in un luogo sicuro. A volte di notte sogno che stanno arrivando i talebani, bussano alla porta e mi urlano contro».
Tutto era pronto perché Murtaza e la sua famiglia lasciassero l'Afghanistan con uno dei voli di fine agosto 2021, nei giorni concitati e drammatici seguiti alla presa di Kabul da parte dei talebani. «Ma abbiamo saputo dell'allarme su possibili attentati e a malincuore abbiamo chiesto alla famiglia di rinunciare all'imbarco - spiega ancora Bertolotti - Una scelta che ha salvato loro la vita, considerato l'attentato che il 26 agosto ha fatto oltre 180 morti». Nell'ultimo anno e mezzo, nel tentativo di scappare, anche via terra dall'Afghanistan, Murtaza e la sua famiglia sono stati costretti a spostarsi ben 12 volte. Come se non bastasse, a ottobre 2022, i talebani hanno rapito e torturato il padre, per poi rilasciarlo. La svolta a novembre, con la firma al Viminale del protocollo d'intesa per i corridoi umanitari.
Una settimana fa Murtaza, con i genitori, il fratello maggiore, le due sorelle, il marito e il figlio di una di loro, arrivano in Italia. «Penso spesso ai bimbi dell'Afghanistan come me. Spero per loro che il mio Paese torni un giorno un luogo sicuro, dove possano studiare, progredire e realizzare i loro sogni. Oggi per me quel luogo è l'Italia».
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