Ponte sullo Stretto fermo: il Sud è sempre più isolato

Il ministro Giovannini vuole ripartire da zero. Ma Sicilia e Calabria non possono più aspettare

Ponte sullo Stretto fermo: il Sud è sempre più isolato

Tutto bloccato. Ancora. La realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina è ancora in uno stato di perpetua sospensione. Il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, la scorsa estate aveva detto che entro la primavera del 2022 sarebbe stato presentato un nuovo studio di fattibilità, necessario per deliberare sulla materia. La primavera volge al termine ma questo studio ancora non si vede. Il ministro Giovannini tre settimane fa ha però dichiarato che «il progetto non è più attuale, il finanziamento va ripensato a carico della finanza pubblica» e che «ci possono essere alternative con un ponte a tre campate più vicino a Reggio Calabria e Messina, bisogna farne uno nuovo, ci penserà Rete Ferroviaria Italiana in modo che la politica possa prendere una decisione».

Insomma, un modo come un altro per dire che bisogna ricominciare daccapo e che il progetto a campata unica con una luce di 3,3 chilometri aggiudicato nel 2005 a un consorzio capeggiato da Impregilo (nel frattempo diventata Webuild) è in pratica carta straccia sebbene il progetto fosse praticamente esecutivo con vari livelli di validazione. Come da cestinare è la struttura economica dell'opera. Diciassette anni fa, infatti, il governo Berlusconi aveva ideato una struttura finanziaria che prevedeva su 6 miliardi di costo il 40% (2,5 miliardi) a carico dello Stato tramite Stretto di Messina spa (ora finita in liquidazione) e il restante 60% tramite project financing, cioè credito bancario a favore dei contractor che l'avrebbero ripagato tramite i pedaggi per l'attraversamento automobilistico e ferroviario. Se Giovannini dice che tutto deve essere a carico del Tesoro, significa che il ministro Franco dovrà lavorare per ideare nuove soluzioni e altro tempo si perderà.

Il Ponte sullo Stretto, infatti, non fa parte né delle opere previste dal Pnrr né dell'Allegato infrastrutture al Def che definisce le opere prioritarie. Insomma, è fuori dai radar. A ricordarci della sua esistenza, seppur in forma solo teorica, sono state le recenti convention di Forza Italia e di Fdi che l'hanno posto al centro del dibattito. Anche perché il Ponte è sempre stato una bandiera del centrodestra.

E non è un caso che le amministrazioni di centrodestra di Sicilia e Calabria, con i governatori Nello Musumeci e Roberto Occhiuto, siano stati gli unici in questi mesi, a spendersi fattivamente perché la grande opera tornasse sotto i riflettori. La loro opera di moral suasion, ancora in una fase preliminare, non ha sortito grandi effetti perché a Roma tutto è ancora bloccato. Musumeci, di tanto in tanto, si lamenta. «Questo ambientalismo ha detto troppi no: sono i professionisti del no che non vogliono il Ponte sullo Stretto, che hanno detto no al rigassificatore che continuano a dire no a ogni iniziativa di crescita», ha dichiarato un paio di settimane fa, evidentemente scoraggiato.

Proprio ieri il ministro Giovannini, intervenendo a un convegno, ha ricordato che sulla «complessivamente per infrastrutture e mobilità abbiamo assicurato oltre 100 miliardi di nuovi investimenti per i prossimi dieci anni, investimenti che riguardano non solo l'Alta Velocità ma anche le reti regionali più rilevanti per la mobilità quotidiana, come portare l'Alta Velocità a Reggio Calabria entro il 2030, sulle trasversali Napoli-Bari, velocizzare la Roma-Pescara, la Orte-Falconara, completare l'Alta Velocità da Torino fino a Venezia». Peccato che pure sulla Tav Salerno-Reggio i «soliti noti» stiano cercando di perder tempo.

La plastica dimostrazione di questo stallo è lo stesso decreto Aiuti approvato lunedì scorso con l'astensione M5s, che non ha voluto dire sì a un

provvedimento che apre le porte alla realizzazione di un termovalorizzatore a Roma che la grillina Raggi ha ridotto a livello di Calcutta. Ecco, se un solo impianto crea fratture nel governo, inutile parlare anche di grandi opere.

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