Rimini. Sono esattamente le 11.48 quando un affannato Maurizio Landini si affretta nell'ampio corridoio che costeggia la sala principale del Palacongressi di Rimini. Il segretario della Cgil è circondato da un servizio d'ordine piuttosto brusco («se vuoi dopo ci vediamo fuori», dice uno dei suoi dopo un breve battibecco con un cronista che si era avvicinato per una domanda). E, seguito da un codazzo di giornalisti che si fa ogni metro più corposo, si dirige all'ingresso della struttura che ospita il diciannovesimo congresso della Cgil. Di corsa. Perché a differenza di quanto deciso il giorno prima durante il sopralluogo effettuato dallo staff di Palazzo Chigi, Giorgia Meloni non entrerà dal retro. Nonostante le annunciate contestazioni e il piccolo presidio della minoranza interna cigiellina. Anzi, forse è soprattutto questa la ragione per cui la premier decide di passare dall'ingresso principale («e perché non dovrei entrare a testa alta?», è la domanda retorica che affida ai suoi collaboratori). Insomma, come tutti gli altri ospiti. Perché l'unica ragione della sua presenza a Rimini è che non solo Landini l'ha invitata, ma pure che ha molto insistito affinché si realizzasse questa strana congiunzione che ieri ha tenuto insieme per una buona mezz'ora il popolo della sinistra-sinistra con il governo più a destra dell'Italia repubblicana. Il rosso e il nero. Forse è anche per questo che il segretario della Cgil si muove quasi a passo di corsa, perché è bene esserci quando la premier scenderà dalla macchina. Non solo per una questione di bon ton istituzionale, ma pure perché - qui a Rimini lo sanno tutti - è stato proprio Landini a farsi garante con Palazzo Chigi di un'accoglienza comunque «educata e rispettosa dell'ospite e del suo ruolo». E così è proprio lui che non solo l'accoglie, ma che l'accompagna fin dentro l'enorme sala del Palacongressi, una traversata di cinque minuti in una ressa di almeno una cinquantina tra giornalisti e fotografi, con decine di telecamere che inseguono l'assembramento. In un silenzio surreale. Né applausi, né fischi. Neanche un mugugno. Solo gli occhi curiosi dei circa mille delegati.
È arrivato il momento. Sui banchi delle prime file non ci sono più i peluche lasciati pochi minuti prima, a ricordare la protesta della settimana scorsa a Cutro. Ma quando Meloni sale sul palco e si avvicina al podio, parte l'annunciata contestazione della minoranza guidata dalla sindacalista Fiom Eliana Como. Sono una trentina, si alzano ed escono dall'enorme sala con il pugno chiuso e cantando Bella Ciao. La premier non dice una parola e aspetta che il picchetto di benvenuto esca, limitandosi a qualche eloquente espressione del viso. È tutta qui la contestazione davvero fiacca del popolo della Cgil. Che non fischia e nemmeno rumoreggia. Ma si limita «educatamente», proprio come chiesto da Landini a un gelido e distaccato silenzio. Meloni parla poco più di trenta minuti, che apre con una frecciatina ai contestatori. «Non pensavo che Chiara Ferragni fosse una metalmeccanica», dice riferendosi alla scritta «Meloni pensati sgradita in Cgil» mostrata giovedì scorso dalla Como. È il solo accenno polemico in un intervento in cui la premier ribadisce senza alcuna concessione le sue posizioni su reddito di cittadinanza e salario minimo, posizioni lontanissime dalla platea. Lo fa con tono accogliente, perché è evidente che gioca non solo fuori casa, ma per giunta in uno stadio ostile. «Dal mio punto di vista», «secondo me», «io sinceramente penso che», sono espressioni che ritornano più volte. Ma senza concessioni. Tanto che alla fine l'applausometro segna un timidissimo e labile battimani quando Meloni cita «l'ignobile» attacco alla sede romana della Cgil da parte della «destra estrema» e uno striminzito applauso che svanisce in pochi secondi alla fine del discorso.
Per il resto è il gelo. Che per Meloni, però, equivale a una vittoria schiacciante. Meglio, infatti, non sarebbe potuta andare in quella che lei stessa considera una giornata speciale. Una riflessione consegnata a chi ha occasione di incontrarla qualche ora dopo a Bologna, dove si concede una lunga visita tra gli stand della Cosmoprof, la fiera annuale dell'industria cosmetica. Dal palco di Rimini, infatti, la premier ha ribadito l'importanza del «confronto senza pregiudizio», pur «nelle differenze». E lo ha fatto citando Argentina Altobelli, la sindacalista bolognese che a inizio secolo contribuì alla fondazione della Federazione nazionale dei lavoratori della terra. E sul punto è tornata nel successivo faccia a faccia con Landini, durato oltre mezzora. Occasione in cui ha ribadito al segretario della Cgil le ragioni del dialogo «con la forza delle idee che ciascuno legittimamente rivendica». Un concetto su cui aveva insistito proprio Landini annunciando il suo intervento («dobbiamo parlare con tutti e bisogna imparare ad ascoltare chi ha idee diverse così da poter chiedere di essere ascoltati»).
Non è un caso, dunque, che lasciando il Palacongressi di Rimini - ormai in macchina e con il finestrino abbassato - Meloni risponda fiduciosa a chi gli chiede se la giornata possa essere uno spartiacque. «C'è - dice - lo spiraglio di un dialogo nuovo. E, d'altra parte, lo dimostra anche la mia presenza qui».
La prima volta di un presidente del Consiglio al congresso della Cgil dopo ben 27 anni. L'ultimo fu Romano Prodi nel 1996. Prima di lui, solo Giovanni Spadolini nel 1981 e Bettino Craxi nel 1986. Ma nessuno di loro guidava un governo di centrodestra.
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