Il presidente Bce rassicura la cancelliera su Renzi ma ora la Germania vuole riforme vere

Il presidente Bce rassicura la cancelliera su Renzi ma ora la Germania vuole riforme vere

RomaPunture di spillo e parole in codice. Tecnicismi ed acronimi in inglese. È un braccio di ferro sotterraneo quello che si sta combattendo sulla rotta Roma-Berlino-Francoforte. Keynes avrebbe detto che la conseguenza economica della pace portava ad «uno scontro di interessi». Renzi, Merkel, Draghi: ognuno difende i suoi. Come nel 1919. Solo che quella conferenza finì con le sanzioni alla Germania, oggi il rischio è ribaltato.

Ufficialmente la Merkel tace. Toccherà a Jean-Claude Juncker decidere cosa fare con quei paesi che non rispettano i trattati (Francia ed Italia su tutti). E per far capire l'aria che tira, a Bruxelles ricordano che il presidente della Commissione «parla francese, inglese e qualche parola di italiano. Ma pensa in tedesco». Così il Cancelliere aspetta l'Italia alla prova dei fatti. Per poi chiederne conto a Mario Draghi e Matteo Renzi. Il presidente della Bce sta seguendo una linea di politica monetaria contraria alla dottrina tedesca. Immette sempre più liquidità nel sistema (ricorrendo a «strumenti non convenzionali») pur di far crescere l'inflazione. In pochi giorni ha svalutato l'euro dell'8%. In più, prima dell'estate, avrebbe assicurato alla Merkel che di Renzi si poteva fidare.

A Berlino, però, cominciano a pensare che la politica monetaria Bce sia tutta a favore dell'Italia. È Roma quella che ha maggiormente bisogno di inflazione per aumentare il Pil nominale, visto che quello reale è negativo (come ricordava Pier Carlo Padoan); e ridurre così i rapporti debito/pil e deficit/pil. Ed è sempre Roma quella che beneficerebbe maggiormente dell'operazione quantitative easing cioè, l'acquisto di titoli pubblici da parte della Bce. Draghi, quindi, sarebbe entrato in un cono d'ombra tedesco. Tant'è che sono quasi quotidiane le critiche del ministro delle Finanze, Wolfang Schaeuble. A microfoni spenti, le autorità tedesche giudicano la politica di Draghi come moral hazard .

Altrettanto quotidiane sono le punture di spillo che - a cascata - Draghi riversa su Renzi (proprio per uscire dalle sotterranee accuse di partigianeria). Due su tutte. La prima: i governi farebbero bene a non utilizzare sotto forma di maggiore spesa pubblica i risparmi ottenuti dalla riduzione dello spread (a Palazzo Chigi avevano pensato di utilizzare 6 miliardi proprio a questo fine). La seconda: la politica monetaria non può favorire la crescita senza il contributo delle riforme strutturali introdotte dagli Stati.

Un modo per dire che Renzi deve rispettare gli impegni presi. E deve farlo in tempi rapidi. Sia sul fronte delle riformne, sia su quello dei conti. A Draghi non sarebbe piaciuta l'intervista di Padoan che annunciava una manovra limitata nel 2015: basta restare sotto il 3%, diceva il ministro. Se così dovesse essere, la Germania se la prenderebbe prima con Draghi eppoi, attraverso la Commissione, sul mancato rispetto dei Patti da parte del governo italiano. Nella business community dicono ad alta voce: «l'unica inflazione che c'è in Italia è quella delle parole». Tante promesse, pochi fatti.

Ed è per queste ragioni che il presidente del Consiglio alza i toni sulla riforma del mercato del lavoro. Sa benissimo che senza la riforma, la sua credibilità è a rischio. A Bruxelles, Padoan si è sentito ripetere che sarebbe opportuno un voto sulla legge delega prima del 15 ottobre. Prima, cioè, della presentazione alle Camere ed alla Commissione della legge di Stabilità.

Senza quel voto, difficilmente potrebbero essere riconosciuti al bilancio italiano quei margini di flessibilità previsti dai Trattati. Per non parlare dei rischi se la Legge di Stabilità non fosse da 20 miliardi. A quel punto, le punture di spillo si potrebbero trasformare in procedure d'infrazione.

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