La Cina continua ad avere un concetto sempre più distorto e arbitrario della giustizia. Ne sanno qualcosa il magnate Sun Dawu e il conduttore radiofonico di Hong Kong Tam Tak-chi, condannati per il surreale reato di «aver provocato problemi». È la delirante sentenza di due processi distinti, ma condotti allo stesso modo da Pechino, sempre meno tollerante nei confronti di chi non abbraccia il pensiero unico imposto da Xi Jinping.
Sun Dawu, imprenditore agricolo e filantropo, era finito nel mirino delle autorità cinesi per il suo impegno a favore della giustizia sociale e degli attivisti umanitari. Il 67enne magnate è il fondatore di un impero agricolo da miliardi di dollari. Fino al suo arresto in novembre, l'imprenditore ha impiegato i profitti del suo gruppo per favorire la giustizia sociale, soprattutto nelle aree rurali più povere della Cina. Dopo un processo lampo che si è svolto in gran segreto, è stato riconosciuto colpevole dal tribunale di Gaobeidian, nella provincia dello Hubei, di capi di imputazione quali «raduno di folla per attaccare organi statali», «ostacolo all'amministrazione del governo», ma soprattutto «aver provocato problemi». Espressione che viene usata in Cina per etichettare i dissidenti. Ora dovrà scontare 18 anni di carcere.
Per tentare di salvare familiari e collaboratori, Sun si è assunto ogni responsabilità per i reati contestati. La difesa ha già annunciato di voler ricorrere in appello. Secondo gli avvocati dell'imprenditore, durante la detenzione preventiva l'accusa «non ha raccolto testimonianze, ma le ha estorte con la forza e la tortura. Abbiamo visitato più volte il nostro assistito, trovandolo sovente in condizioni pessime e con il corpo pieno di lividi». Il tribunale ha inoltre condannato la sua azienda, la Dawu Agricultural and Animal Husbandry Group, a pagare una multa equivalente a 4 milioni di euro, confiscando beni per un valore di altri 2 milioni.
Anche il 48enne Tam Tak-chi è una persona che «crea problemi». Ieri mattina è apparso nell'aula del tribunale di Hong Kong dove i giudici l'hanno ritenuto colpevole di aver pronunciato discorsi sediziosi. Rischia cinque anni di carcere e ha due giorni di tempo per presentare ricorso alla condanna. Tam Tak-chi, vicepresidente del partito democratico radicale People Power, ed ex conduttore radiofonico soprannominato «Fast beat», era stato arrestato lo scorso 6 settembre. Gli agenti della squadra per la sicurezza nazionale, quella guidata dal famigerato Steve Li, l'avevano prelevato dalla sua abitazione nella zona nord-orientale dell'ex colonia britannica. L'arresto non era stato eseguito in base alla nuova legge sulla sicurezza, ma in funzione dell'articolo 10 del codice penale della legislazione coloniale britannica che punisce le dichiarazioni anti-governative. Una legge promulgata nel 1938. L'ex dj avrebbe tenuto 29 arringhe da fine giugno ad agosto 2020, allestendo un palco improvvisato in strada, soprattutto a Kowloon, il distretto centrale dove ha sede anche il parlamento della città-stato. Il pretesto sarebbe stato quello di parlare dell'epidemia di covid, in realtà «Fast Beat» avrebbe affrontato temi politici, «incitando all'odio e al disprezzo contro il governo», secondo le accuse ufficiali. Durante il processo, i magistrati hanno ritenuto che la frase «Liberare Hong Kong, la rivoluzione del nostro tempo», uno dei principali slogan dei manifestanti nel 2019, fosse un proclama secessionista.
Come se non bastasse proprio ieri pomeriggio, sempre al grido di «aver provocato problemi», sono finiti in manette a Hong Kong due studenti di 18 e 25 anni, Sham Shui Po e
Ma On Shan. La loro «colpa» aver lasciato commenti che incitano all'odio sotto ad alcuni post della pagina Facebook governativa. Quattro in tutto secondo gli avvocati dei giovani, ma l'accusa parla addirittura di duemila.
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