Quando la preghiera finisce in fuorigioco

Quando la preghiera finisce in fuorigioco

Molti sportivi sono stati e sono credenti. E, abituati alle sfide, non pochi ostentano la loro fede religiosa anche in situazioni in cui il mainstream culturale suggerirebbe un atteggiamento più cauto e defilato. Moggi va a Lourdes, l'allenatore del Crotone va in pellegrinaggio in bicicletta dopo un voto, Trapattoni aspergeva il campo di acqua benedetta. Potremmo continuare con gli esempi contemporanei. Ma anche in passato: basta menzionare la profonda devozione di Bartali, che riuscì a trascinare Coppi da Padre Pio, anche se il Campionissimo aveva il piccolo problema della «dama bianca».

Chi non ricorda Sangue e arena, in cui Tyrone Power, pur essendo adultero reiterato e continuato, prima di affrontare il toro pregava inginocchiato davanti all'altare della Vergine? In ogni anfiteatro da tauromachia c'è, da sempre, una cappella nella quale i toreri possano raccomandarsi ai Santi prima di affrontare il toro. E non c'è «laicità» che tenga, perché la preghiera fa parte del complesso cerimoniale a cui il toreador deve sottoporsi, vestizione e toupé col codino compresi. Sempre per restare in tema di tori, quelli che a Tolosa corrono nel bel mezzo dei bestioni, a rischio di incornata (e spesso si lamentano morti e feriti), forse non sanno che alla base di tale tradizione c'è un Santo, Saturnino vescovo. In epoca gallo-romana gli oracoli dei templi pagani cessarono di vaticinare; la gente chiese conto ai sacerdoti e questi sentenziarono che la colpa era del cristiano Saturnino, che aveva esorcizzato gli idoli. La folla, furiosa, afferrò il vescovo, lo legò alle corna di un toro e fece imbizzarrire la bestia, che si precipitò per la china straziando il Santo.

Oggi assistiamo alla schizofrenia di squadre di calcio altolocate che, per non «offendere» gli sponsor islamici, tolgono la croce dal loro stemma (optando, tra Dio e Mammona, per quest'ultima). Mentre certi allenatori vanno a messa tutti i giorni e ci portano la squadra. E certi giocatori non sanno più che cosa inventare per gridare a tutti in che cosa credono: scritte sulle magliette, indici rivolti al cielo, inginocchiamenti devoti in pieno campo. Ma è così anche dall'altra parte del mondo. Negli Usa, il campione di football americano Tim Tebow, dei Denver Broncos, si dipinge sulla faccia la scritta John 3:16, che indica un preciso versetto del Vangelo di Giovanni. Da quando ha cominciato, la cosa è diventata virale, dilagando negli stadi, sui cartelli inalberati dal pubblico, sulle magliette, perfino nelle scritte pubblicitarie. Tanto che la Lega Football dovette intervenire vietando ai giocatori di esibire scritte sulla faccia. Ma che dice quel versetto? Ecco: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna».

Dopo il divieto, Tembow, però, giocò quello che è passato alla storia come il «match del 3:16», perché lanciò la palla a 316 yards. E in tutto il resto dell'incontro siglò una serie di dati tutti legati al 3, all'1 e al 6. Scherza coi fanti

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