Quei borghesi mediocri che diedero una mano al Pci

I vecchi comunisti diedero potere a troppi intellettuali mediocri. Ma erano comunque giganti di fronte a Pisapia e Franceschini

Quei borghesi mediocri che diedero una mano al Pci

Caro Vittorio, ti scrivo oggi domenica. Sul Giornale di oggi hai dedicato a me e al mio libro La virtù dell'elefante un tale scritto che desidero rendere pubbliche le ragioni della mia gioia. In quarant'anni è la cosa più bella che io abbia ricevuta. Tu sei uno degli amici del cuore di una vita: e fin qui lo sapevamo tu, io e anche gli altri che condividiamo nelle rispettive cerchie. Ma se tu, da amico del cuore, volevi farmi un regalo scrivendo del mio libro, da quel Maestro che sei ti sarebbe bastato fare un ritratto di Paolino come ti veniva nella penna e avresti scritto un gran bell'articolo. Qui subentrano allora il tuo amore per me e la tua grandezza che ti fa uno dei migliori scrittori italiani viventi (alla nostra età e vivendo ambedue nec spe nec metu queste cose si dicono senza paura di esser tacciati di piaggeria: infatti stanno nel ritratto che nel libro ti ho dedicato). Tu le seicento pagine le hai lette tutte, e non lette, sviscerate: onde sei pervenuto a scrivere cose nuove e intelligenti frutto di uno sforzo straordinario per comprendere, internarti e darne conto. Se io sono un genio, a essere geni siamo almeno in due. E ti vorrai rendere interprete verso Alessandro Gnocchi che, da capo-redattore Cultura del Giornale , ha non meno amorosamente vegliato sul destino del mio libro: e con Alessandro Sallusti che, da direttore, ha sovrainteso al tutto.

Adesso non vorrei sembrare ridicolo se al tuo scritto oso appulcrare verbo: avresti il diritto di dirmi: «Stai a ccuorpo sazzio e ancora vai truvann qualcosa?», ossia: «Ti sei ben ingrassato e ancora non ti basta?».

Innanzitutto mi ribello quando tu dichiari di essermi inferiore. Va bene se si prende per un'argomentazione retorica per absurdum: ma io invoco il tuo ritrattino da me steso per dimostrare che non è così. Tu sei protetto da Mercurio, io da Giove (nome col quale gli Antichi chiamavano San Gennaro): nel nostro rispettivo ambito ci equivaliamo. Poi mi ribello per le cose che dici sulla mia produzione di critico musicale di quarant'anni fa. Io lo spiego chiaramente: ero un ragazzino presuntuoso e bluffatore ed è incredibile che nessuno sia stato capace, allora, di dire, come al poker, «Vedo»: sarei stato espulso dal tavolino da giuoco. Il fatto è che io potevo parer bravo per chi riusciva a discernere, nella fuffa che producevo, potenzialità che poi, forse e solo forse, si sarebbero in futuro ostese: per dono divino ostese si sono, ma non da moltissimo tempo.

Così la persecuzione che subii nel 1979 quando Franco Di Bella mi assunse al Corriere della sera è stata un'altra astuzia di San Gennaro per giovarmi. Se allora io avessi effettualmente incominciato a fare il critico musicale del Corriere , mi sarei bruciato; sebbene a contrastarmi vi fossero nullità. Tu hai voluto ricordare un Duilio Courir, uno sventurato oggi scomparso ad apparente difesa del quale si ordirono le assemblee e le raccolte di firme «della Cultura italiana» contro di me. Costui non è mai stato un mio nemico: non ne aveva la statura: era lì solo in quanto garante d'interessi precisi d'un preciso gruppetto di potere al quale obbediva.

E allora mi permetterai di dire come io narro la persecuzione del 1979. Tu la attribuisci al Comitato di redazione e al Partito comunista. Il comitato di redazione era un mero strumento; il Partito comunista in quanto tale non ce l'aveva con me, ce l'aveva un gruppo che di esso si serviva.

Infatti coi comunisti veri, i nostalgici di Stalin, io in vita mia non ho mai avuto difficoltà o inimicizie. Ero amico di Paolo Spriano, di Lucio Colletti (prima e dopo), di Antonello Trombadori, di Luigi Corbani (idem). Adesso sono amico di Gianni Cervetti, straordinario uomo di cultura (colla c minuscola: ché tu e io colla C maiuscola intendiamo l'uso dell'istruzione a fini di oppressione del prossimo), di Luciano Canfora e di Antonio Bassolino. Secondo me l'errore del Partito comunista nella gestione dell'egemonia culturale sua è stato di aver dato il culo per niente, ovvero fatto da taxi a soggetti ed ambienti che l'impiegavano per i loro fini. Chi ce l'aveva con me erano soprattutto i Salotti milanesi che gestivano la situazione per conto di Abbado (Claudio), Luigi Nono e Maurizio Pollini. Così si spiega che l'ufficio stampa della Scala, retto da un Carlo Mezzadri, all'insaputa o nell'impotenza del povero Carlo Badini, allora soprintendente, fosse uno dei centri di raccolta delle firme contro di me; e la signora Pollini girasse per Milano novella spigolatrice. Esistono situazioni archeologiche le quali vengono poi ereditate anche quando siano venute meno le stesse loro causae vivendi, ragioni d'essere; e così, trentacinque anni dopo, la Scala di Lissner s'è rifatta interprete di costoro facendomi una persecuzione che mi ha giovato incredibilmente. Vorrai forse credere che Lissner e il suo successore Pereira abbiano qualcosa da fare col Pd (il nome col quale oggi si chiama il Pci)? C'è solo da dire che da Berlinguer, Ingrao e Amendola siamo passati a Pisapia e Dario Franceschini, sventurati privi di coraggio e d'intelligenza che in ordine alla Scala hanno sbagliato tutto, me compreso. Da grandi uomini a nani, ecco il destino.

Abuso della tua pazienza per fare un'osservazione relativa all'attuale soprintendente Pereira.

Se costui fosse intelligente, dichiarerebbe: «Non sono d'accordo con quello che scrive Isotta e men che meno sugli attacchi che rivolge alla mia persona; ma la Scala è un teatro pubblico e il critico del Corriere della sera è il più gradito degli ospiti». Ma costui non lo fa: perché il servilismo verso i Salotti produce anche lo Zelo, che fa perdere le battaglie già vinte. Le fece perdere a Pompeo Magno, figuriamoci Pereira…...

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