Quei giovani appesi alle finestre come le vittime di New York

Un filo rosso unisce i ragazzi del Bataclan agli uomini delle Twin Towers. Cartoline dall'inferno: 129 morti e 352 feriti. Dolore, rabbia ma anche speranza

Quei giovani appesi alle finestre  come le vittime di New York

Quando le luci della Tour Eiffel si spensero, e la notte di Parigi si fece buia e nera come solo durante la guerra, ci fu uno, un ragazzo italiano che studiava alla Sorbona che scese dalla sua bici, abbracciò la sua ragazza, una vera parigina con cui aveva pedalato fino all'alba, e le citò quel verso di Ungaretti, sapete: quell'ode alla precarietà della vita umana che si consuma tutta in un verso. «Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie», dice. Lei non la conosceva, quella poesia; ma le venne da piangere quando lui gliela recitò. Allora lei disse che non l' avrebbe dimenticata mai più, per tutta la vita.E che quella poesiola avrebbe compendiato, così disse, tutte le immagini che le si erano confitte nel cuore, quella notte del 13 novembre 2015, 129 morti e 352 feriti, 90 gravi. Quelle di cui era stata testimone lei stessa, e quelle che continuavano a girare in tutte le edizioni straordinarie delle tv. Bastava fermarsi un momento al di qua delle vetrine dei bistrot e dei caffè che si erano rifiutati di chiudere i battenti. Ed eccole, quelle immagini, e poi rieccole, mezz'ora dopo. Quella del bambino di colore che con la sua bomboletta spray sta rifinendo una grande scritta che dice: «Pray for Paris». L'immagine del militare col mitra imbracciato che fa la guardia alla Tour Eiffel. Il volto della donna che si tiene le guance tra le mani e piange, o forse ha pianto, e ora è come sgomenta, attonita, e guarda nel vuoto che si è come spalancato sotto ciascuno di noi. I fiori con i bigliettini di chi ha voluto rivolgere un pensiero, indirizzare una carezza ai morti innocenti, ai ragazzi e alle ragazze che fino a un momento prima ballavano e ridevano mentre Jesse Hughes degli «Eagles of Death Metal», le braccia tatuatissime e la sua Gibson «Les Paul» nera intonò «Don't speak (I came to make a bang)», là, al Bataclan.Appesi a un filo, come quei giovani uomini e quelle giovani donne appesi alle finestre al secondo piano della discoteca, sul retro, a perpendicolo sui morti ammucchiati di fronte all'ingresso degli artisti. Appesi a un filo, ma decisi a resistere, a non farsi sopraffare dalla paura, dal terrore. Capaci ancora di immaginare un futuro diverso, come suggerisce il pianista che ha trascinato il suo strumento fino in rue Richard Lenoir, e ora è proprio «Imagine», di John Lennon, che sta intonando.Chiusa Disneyland, chiusi i grandi magazzini Printemps e Galeries Lafayette. Sospesi i campionati di calcio e di rugby. Annullati concerti e spettacoli. Annullato Hollande, incapace di prevedere, come Sarkozy prima di lui con Gheddafi, che chi manda i Mirages in Siria a bombardare i «cattivi», può solo aspettarsi la reazione rabbiosa e decuplicata, in ferocia, di chi la guerra sa portartela sulla soglia di casa, perché nella gara a chi è più cattivo, dai tempi di Caino, non vince mai nessuno.«Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse Karl Kraus, disperato dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale. Lo ricordò Tiziano Terzani a Oriana Fallaci in una sua lettera all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle. Le guerre sono tutte terribili. E illudersi di battere la violenza con la violenza è il violento equivoco in cui ci dibattiamo dal giorno in cui una «libertà duratura» promessa dagli americani al tempo dei Talebani e di «Enduring Freedom» allargò la fossa in cui si mescolano i torti e le ragioni di tutti, e si facciano indistinguibili, in modo che alla fine trionfi la bestia sanguinaria dell'apocalisse.

E si torni a guardare, attoniti, il volto sgomento di una donna che si tiene il volto tra le mani. E quello di una giovane parigina che al fidanzato italiano, una notte di metà novembre, disse che non avrebbe più dimenticato quel verso. Un verso che la faceva piangere, disse, ma non sapeva spiegare perché.

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