Frenare i facili entusiami e riprogrammare la riforma degli ammortizzatori sociali in modo da licenziare il provvedimento entro fine mese, come previsto dal cronoprogramma del Pnrr. È questo, in estrema sintesi, quanto emerso dall'incontro tra il ministro dell'Economia, Daniele Franco, e il titolare del Lavoro, Andrea Orlando. Non ci sono, pertanto, né ipotesi prevalenti né, tanto meno, numeri, si apprende da Via XX Settembre. Una circostanza che sicuramente dispiacerà al sindacato e sulla quale, invece, il ministro piddino ha fatto buon viso a cattivo gioco. «Credo che siamo decisamente a buon punto, siamo davvero alla stretta», ha dichiarato ieri sottolineando che «la riforma è una delle risposte non l'unica perché poi ci sono le politiche industriali, le politiche attive e le politiche di contrasto alla diseguaglianze, ma intanto è uno strumento che consente dare a tutti una copertura a prescindere dalla dimensione delle imprese».
Le norme abbozzate da Orlando si propongono di superare la gestione assistenzialistica delle crisi industriali, puntando sulla riqualificazione dei lavoratori ed estendendo i sussidi a tutte le categorie di imprese, incluse le piccole e piccolissime. Il problema è il costo di questa impalcatura che, stando alle prime stime, si aggirerebbe i 10 miliardi di euro annui. Ed è proprio sui costi che andrà trovata la quadra con Franco con cui ci sarà un nuovo incontro dal quale dovrebbe poi sortire la nuova proposta da mettere al tavolo con Cgil, Cisl e Uil.
Il principio guida della riforma è l'universalizzazione della cassa integrazione con aliquote di contribuzione differenziate a seconda della dimensione dell'impresa (da un minimo dello 0,4% fino a un massimo del 9% sul salario lordo del lavoratore). La durata sarebbe variabile da un minimo di 12 (micro-pmi) a un massimo di 30 mesi (grandi imprese) nell'arco di un quinquennio mobile contribuire, pur se con aliquote differenziate in base alla dimensione. Non si esclude, inoltre, l'applicazione di un sistema bonus/malus come nell'Rc Auto. Chiaramente il nuovo ammortizzatore rischia di costare caro alle imprese con alta intensità di lavoro come la grande distribuzione, la metalmeccanica e le costruzioni. E probabilmente quando il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si lamenta di non essere stato consultato allude probabilmente a questo.
L'altro tema è rappresentato dalle politiche attive. La riforma introduce il «Gol», acronimo di «garanzia di occupabilità del lavoratore», ossia una riscrittura con le Regioni del sistema della formazione destinato alle aziende che affrontano una «transizione» intesa non solo come ristrutturazione ma anche come passaggio a modalità produttive «digitali» o «ecologiche». Ma chi formerà i formatori per evitare che si riproponga un nuovo caso navigator?.
Di qui la prudenza del ministro Franco. Ecco perché i numeri possono aiutare a comprendere la situazione. Il Pnrr destina 12 miliardi di euro alle politiche attive. In particolare, 3,5 miliardi complessivi sono destinati al «Gol», mentre 3 miliardi saranno indirizzati a programmi di formazione che dovrebbero coinvolgere circa 350mila disoccupati e un numero maggiore di occupati (con fondi interprofessionali e università). Alla decontribuzione per le assunzioni nel Mezzogiorno andranno 4,4 miliardi. Ovviamente, la vigilanza di Bruxelles obbliga l'Italia a un'estrema accuratezza che non fa rima con la necessità di avviare la riforma quanto. Per questo motivo, la speranza del ministro Orlando e dei sindacati è «strappare» almeno 5 miliardi nella prossima legge di Bilancio per far partire almeno la nuova cassa integrazione universale.
O almeno pensare a un allungamento da 2 a 3 anni della Naspi. L'unico argomento finora non affrontato è un ripensamento di quella quota di reddito di cittadinanza destinato ai disoccupati. Eppure anche quello è welfare.
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