Il "Rinascimento" saudita. Condannato a morte il professore anti-Salman

Docente di diritto, Al Qarni accusato di "uso ostile" dei social. La vicinanza con i Fratelli Musulmani

Il "Rinascimento" saudita. Condannato a morte il professore anti-Salman

È il doppio volto dell'Arabia Saudita guidata dal principe ereditario Mohammed Bin Salman. Da una parte quello ufficiale del presunto «rinascimento saudita», che predica la modernizzazione e una maggiore integrazione con l'economia occidentale e una «rete» in cui investono sia i «fondi sovrani», sia i rampolli della casa regnante. Dall'altra il volto spietato di una repressione pronta a controllare gli indirizzi social che diffondono opinioni contrarie a quelle ufficiali, per trasformarli in strumenti con cui inquisire i dissidenti e chiederne la condanna a morte. All'interno di questo doppio e ambiguo universo si consuma anche il destino di Awad Al Qarni, un 65enne ex-accademico saudita in galera dal 2017 con l'accusa di aver usato gli account social - tra cui uno su Twitter seguito da due milioni di persone - per diffondere i proclami della Fratellanza Musulmana. Un'attività assai pericolosa in un paese dove la Fratellanza - movimento simbolo delle cosiddette Primavere Arabe - è considerata uno dei principali nemici. Un nemico da combattere con ogni mezzo come ha dimostrato, nel 2018, l'eliminazione a Istanbul del dissidente Jamal Kashoggi, colpevole di appoggiare la Fratellanza.

La storia di Al Qarni e della condanna a morte chiesta per lui dalle autorità inquirenti saudite non è diversa. Stando al quotidiano inglese The Guardian, la richiesta di spedirlo sul patibolo sarebbe proprio la conseguenza dell'intensa attività in rete di Al Qarni, colpevole di aver usato Twitter e i social per diffondere idee e posizioni poco gradite alla linea ufficiale. Stando agli atti d'accusa forniti al quotidiano da Nasser Al Qarni - il figlio dell'accademico riparato a Londra - gli inquirenti hanno fatto riferimento all'uso illecito di internet e dei social per motivare la richiesta della pena di morte. Una richiesta avanzata già da qualche anno, ma non ancora valutata dalle autorità. Stando agli atti, le accuse sarebbero la conseguenza delle «ammissioni» rese dallo stesso Al Qarni. Il dissidente avrebbe «confessato» di aver utilizzato i social media a proprio nome e di averli impiegati «per esprimere le proprie opinioni ogni qualvolta ne aveva l'opportunità». Stando alla documentazione, Al Qarni ha ammesso non solo di utilizzare WhatsApp, ma anche di aver realizzato alcuni video in cui si elogiano le attività della Fratellanza Musulmana. E un'ulteriore prova della sua colpevolezza sarebbe l'apertura di un indirizzo Telegram a proprio nome e il suo successivo utilizzo.

Accuse paradossali visto che molti social e giganti della «rete» sono partecipati da fondi gestiti dalle autorità saudite o da esponenti della casa regnante. Quote importanti di Twitter e Facebook appartengono a entità finanziarie legate al governo saudita o a investitori ufficiali del Regno, mentre il Fondo Pubblico d'Investimenti, ovvero il «fondo sovrano» saudita, ha appena aumentato la propria partecipazione nel gruppo Meta proprietario di Facebook, WhatsApp e Instagram. Il principe Alwaleed bin Talal è, invece, il secondo azionista di Twitter dopo Elon Musk.

Prelevato e detenuto - seppur con maggiori attenzioni di Al Qarni in occasione dell'ondata di fermi che nel 2017 portò anche all'arresto dell'accademico - il principe Al Waleed venne rilasciato 83 giorni dopo, in seguito a un accordo con Bin Salman, rimasto segreto. Un accordo che non gli ha impedito di investire su quella Rete utilizzata per dimostrare la colpevolezza di Al Qarni e di altri dissidenti.

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