Oggi l'Italia riceverà da Bruxelles un monito discreto. L'avvertimento è tale perché le stime di primavera ridurranno di 1,5 punti percentuali rispetto a febbraio il tasso di crescita atteso del Pil che dal 4,1% dovrebbe pertanto attestarsi nei pressi del 2,6% a fronte di un tasso di inflazione visto al 6,1% dal precedente 3,5 per cento. La discrezione è legata al fatto che mercoledì prossimo, insieme alle nuove linee guida del Pnrr, all'Italia giungeranno anche le solite raccomandazioni che, vista la presenza di Mario Draghi alla guida dell'esecutivo, avranno una cogenza più attenuata sebbene la sostanza sia la medesima dell'ultimo decennio: ridurre, cioè, il debito pubblico.
Nel tratto finale del suo mandato il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia, Daniele Franco, dovranno affrontare un vero e proprio «Pordoi dei conti pubblici» perché saranno soli come ogni scalatore che affronta la temibile cima del Giro. La Commissione Ue è, infatti, orientata a prorogare la sospensione del Patto di Stabilità al 2023, una necessità dinanzi al quadro recessivo prodotto dal conflitto ucraino. In un periodo pre-elettorale come quello che caratterizzerà la sessione della legge di Bilancio, questa apertura a un maggior deficit potrebbe tuttavia produrre effetti esplosivi sui conti pubblici. Non è un mistero che l'Italia quest'anno possa vedere un rapporto debito/Pil più vicino al 150% che al 147% prospettato dal Def. La minore crescita del Pil, inoltre, potrebbe ancorare il deficit nei pressi del 6% del prodotto interno lordo.
Ecco perché dinanzi a quelle raccomandazioni soft che giungeranno da Bruxelles Draghi e Franco dovranno avere lo spirito dei grimpeur. In primo luogo, non dovranno cedere alla facile tentazione di assecondare le spinte provenienti da sinistra su bonus, sussidi e reddito di cittadinanza (che già impegna circa 9 miliardi di euro) erga omnes. Inoltre dovranno mostrare altrettanto rigore al tavolo sulla riforma delle pensioni. Con il quadro macroeconomico che si prefigura e il naturale deterioramento dei conti pubblici non si può parlare di eccessive flessibilizzazioni in ambito pensionistico. Insomma, il tema «quota 41» (il pensionamento con 41 anni di contributi costa a regime 9,2 miliardi di euro) deve scomparire dal dibattito e l'unica proposta che può essere avanzata al sindacato è quella di un'uscita anticipata con ricalcolo contributivo. Con buona pace del ministro del Lavoro Orlando che a Cgil, Cisl e Uil ha sempre strizzato l'occhio.
Analogamente, la spesa pubblica dovrebbe essere diretta verso il capitolo investimenti. Le nuove linee guida della Commissione saranno focalizzate sull'ambito energetico per favorire l'indipendenza dai combustibili fossili e, quindi, dal gas russo. Ma, allo stesso tempo, non si può negare che le dotazioni infrastrutturali dovrebbero avere ugualmente un ruolo prioritario nel momento in cui si dovessero rimodulare le risorse. Pensare al Ponte sullo Stretto per dare un senso alla Tav nel Mezzogiorno non deve essere più un tabù: sono 7 miliardi di euro che creerebbero 100mila posti di lavoro e contribuirebbero all'incremento del Pil. Lo stesso discorso è valido per le infrastrutture energetiche: rigassificatori e termovalorizzatori in primis.
Ma anche le opposizioni ambientalisti a campi eolici off-shore e al fotovoltaico non hanno più ragion d'essere. La spesa per investimenti è positiva, quella per tenere le persone a casa sul divano a breve non sarà più consentita.
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