La «legge truffa», simbolo politico e polemico di anni ormai remoti, viene incessantemente evocata in questi giorni come infausto precedente dell'Italicum. Così riverberando sull'attualità una damnatio memoriae che tuttora dura. Ho vissuto, da giornalista e da cittadino, il ruggente divampare d'uno scontro che nel 1952-1953 infiammò l'Italia, e che è stato ora replicato con molta enfasi ma con minore convinzione. Mezza Italia additò a quel tempo in Alcide De Gasperi e in Mario Scelba – cui andavano la mia totale stima e ammirazione benché votassi per i repubblicani - gli spregevoli orditori d'un complotto autoritario. Palmiro Togliatti, paladino delle regole democratiche apprese nell'esilio moscovita, martellava sull'analogia tra la legge elettorale proposta da De Gasperi e la legge Acerbo del fascismo. Fingendo di dimenticare che la «legge truffa» dava 380 seggi nella futura Camera alla lista o alla coalizione che avesse avuto il cinquanta per cento dei consensi, la legge Acerbo dava invece una schiacciate maggioranza alla lista più forte, anche se minoritaria. Tra gli intellettuali di spicco Gaetano Salvemini era per la «legge truffa», Calamandrei contro. Ma contro anche il liberale Corbino.
Gli schieramenti in campo erano allora molto più chiari, ideologicamente, di quanto siano adesso. I socialcomunisti sulle barricate, l'alleanza moderata in difesa a proteggere un De Gasperi aggredito come «fascista». Le differenze tra il 1952-53 e il 2015 sono molte ed evidenti, la più vistosa sta a mio avviso nel fatto che la Cgil aveva in quella Italia vitale, vivace, soggetta ai veti d'un operaismo di vecchia maniera, una forza imponente. Il sindacato socialcomunista mobilitò le masse, che ancora c'erano. Furono indetti due scioperi generali oltre ad una miriade di agitazioni locali. Le sedute della Camera erano tumultuose, volavano carte ma anche oggetti contundenti, veniva preso di mira, per non essere intervenuto bloccando la legge, il presidente della Repubblica Einaudi. Gli eccessi della piazza scatenata si sommavano alle risse nell'aula. Ci fu perfino un ferito grave, un usciere, e il filibustering imperversava. Grandinarono gli emendamenti, definiti «a cascata» o «a raggiera». Nella seduta finale si contarono 186 dichiarazioni di voto. Finalmente ci fu, a Montecitorio, l'approvazione. «Siamo usciti - annotò enfaticamente Pietro Nenni - al canto degli inni di Mameli e dei lavoratori».
A Montecitorio ci si battè a fine 1952, a Palazzo Madama, nel marzo del 1953. Nuova edizione delle proteste popolari e dei cavilli procedurali. Se possibile il dibattito del Senato fu più agitato e settario del dibattito della Camera. Presiedeva la seduta l'anziano Meucio Ruini che aveva mostrato coraggio sul Carso ma fronteggiò malvolentieri gli energumeni di falce e martello. La domenica delle Palme, 29 marzo 1953,ci fu il voto finale. «Ruini - annotò Nenni - era come nascosto dietro un duplice cordone di uscieri, pallido e tremante parlava nel microfono facendo registrare le sue parole che nessuno nell'aula poteva udire. Quando affranto è uscito dall'aula ha detto: «Ho salvato la democrazia ma sono personalmente un uomo finito». Ecco la versione andreottiana della stessa scena: «Frammenti tutt'altro che invisibili dai banchi della sinistra furono divelti e lanciati contro i seggi della Democrazia cristiana mentre i commessi riuscivano a stento ad impedire a Velio Spano di scagliare contro Ruini una robusta poltroncina». Molto rumore per nulla. O piuttosto per affossare, nelle successive politiche, una legge saggia, poi rimpianta anche da molti che l'avevano avversata.
Lo scatto del premio di maggioranza non avvenne, il 7 giugno, per un soffio. La Dc e i suoi tre alleati ebbero il 49,85 per cento dei voti, ne sarebbero bastati altri cinquantamila per salvare la «legge truffa». La sconfitta democristiana era stata determinata dai monarchici e dai missini, un milione e 854 mila voti i primi, un milione e seicentomila i secondi. È stato osservato che fu eccezionalmente alto il numero delle schede bianche e nulle e che una verifica avrebbe dato ragione a De Gasperi. Ma lui non volle aggrapparsi a un cavillo per salvare una riforma di grande respiro. Preferì salvaguardare o recuperare l'unità del Paese piuttosto che affidarsi a un contenzioso meschino. Einaudi diede comunque al politico che più stimava l'incarico di formare il governo e De Gasperi ci si provò ma in un clima di malcontento e defezioni dei partiti minori e di agguati democristiani. Fu formato un monocolore dello scudo crociato nel quale lo scalpitante Amintore Fanfani ebbe il ruolo di ministro dell'Interno. L' ottavo e ultimo ministero De Gasperi fu battuto, il 26 luglio 1953, da 282 no e 263 sì.
De Gasperi si dimise dalla presidenza del Consiglio ma mantenne la segreteria del partito. Pronunciò un ultimo nobile discorso all'assemblea dell Dc ma la salute vacillava. La morte lo colse a Sella di Valsugana, dove trascorreva le vacanze, il 19 agosto del 1954.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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