La rivincita dei Ligresti innocenti dopo otto anni

Condannati a Torino, assolti a Milano. Distrutto il patrimonio. "Contentino" a Giulia per il carcere subìto: 16mila euro

La rivincita dei Ligresti innocenti dopo otto anni

I ricordi sono spilli conficcati nella carne. «Sono stati mesi, anzi anni di sofferenze terribili - spiega Jonella Ligresti - Umiliazioni. Privazioni. Mortificazioni. Certo, il mio cognome era un handicap: molti mi guardavano storto, pensavano a chissà quali privilegi o trattamenti di riguardo ma io ero solo una madre sbattuta in carcere all'improvviso e per una ragione che nemmeno riuscivo a comprendere. Ma sapevo di essere innocente».

Jonella Ligresti ha un cognome pesante e un'esistenza agiata fino al 17 luglio 2013, il giorno dell'arresto. Per i pm di Torino è responsabile di falso in bilancio e aggiotaggio informativo in relazione alla Fonsai, la compagnia assicurativa di famiglia. In quelle ore finisce in manette anche la sorella Giulia, mentre il fratello Paolo, cittadino svizzero, viene dichiarato latitante. I Ligresti, guidati dal patriarca Salvatore, sono sulla scena da molti anni e non sono mai stati completamente accettati dall'establishment. Facile considerarli colpevoli in blocco, ma la situazione non è come viene descritta dalla magistratura piemontese. I tre non hanno commesso alcun reato, ma ci vorranno anni per riconoscerlo e per arrivare solo oggi a risarcire Giulia con 16mila euro per l'ingiusta detenzione.

Jonella si ritrova in cella: Cagliari, Torino, San Vittore. L'arrivo alle Vallette tre giorni dopo la cattura, nell'opprimente afa estiva, è forse il momento peggiore: «Ero chiusa in una specie di gabbia dentro la camionetta della polizia penitenziaria. L'agente alla guida aveva spento il motore, aveva estratto la chiave e se n'era andato con i colleghi. Io ero lì dentro, in quel sarcofago, con la bocca aperta perché non riuscivo a respirare. Pensavo ai miei figli: a Ludovica. E a Paolo che era solo un bambino attaccato alla mamma. Mi sembrava di soffocare. E allora ho avuto paura di morire. Gridavo: Aprite, aprite. Finalmente è arrivato un uomo in divisa, ha spalancato il portellone, sono uscita fuori».

Il bilancio di questa storia è insieme devastante e sconcertante, come solo le saghe giudiziarie italiane sanno essere: Giulia, stremata, patteggia e torna libera; Jonella trascorre quattro mesi in prigione, altri otto ai domiciliari, poi viene condannata in primo grado a Torino a 5 anni e 8 mesi. A un certo punto i figli, angosciati, l'hanno implorata con le lacrime agli occhi di patteggiare, come Giulia; lei ha accettato, ma il giudice, severissimo, ha respinto l'accordo perché la pena era troppo bassa.

Un disastro prima di un doppio colpo di scena: la corte d'appello annulla tutto e manda le carte a Milano per competenza. A Milano il fratello Paolo viene assolto in un procedimento parallelo. Il terzo della serie.

Milano, lo si capisce lontano un chilometro, non crede neanche un po' alle accuse costruite in Piemonte. I periti rifanno i calcoli e stabiliscono che non è stata superata la linea che fa scattare il reato: per Torino c'era uno 0,2% di troppo, sì proprio così, per Milano no. Siamo sotto la soglia di punibilità del 10% e l'illecito non c'è. Di più, non c'è neppure l'aggiotaggio informativo: «La lettura del comunicato del 23 marzo 2011 - scrive il collegio di rito ambrosiano - consente inequivocabilmente di riscontrare la divulgazione delle notizie concernenti sia il numero finale delle perdite che l'andamento negativo delle riserve sinistri già appostate per gli anni precedenti». Nessuna bugia.

Milano chiede l'archiviazione senza nemmeno andare a processo. Le accuse, anzi le condanne non reggono. Anche Giulia fa ricorso contro il patteggiamento e, dopo un nuovo passaggio in cella di 20 giorni, la pena viene cancellata. Alla fine tutti e tre i fratelli escono indenni dal match giudiziario andato avanti per otto anni, dal 2013 al 2021. Oggi Giulia, come anticipato dal Corriere della sera, riceve un indennizzo, anzi un «equo ristoro» di 16mila euro, mille al giorno «in considerazione del clamore mediatico dell'arresto», ma solo per i primi 16 giorni di carcere. Dal momento in cui formalizza la domanda per patteggiare, il conteggio della giustizia si interrompe. Galera sì, ma senza ristoro, perché evidentemente il patteggiamento è ritenuto un'ammissione di colpevolezza e nessuno scandaglia le ragioni di quella scelta: la paura, il pressing dei legali, il pianto dei figli come è successo a Jonella.

Le sofferenze restano. Come la dissoluzione nella tempesta del patrimonio di famiglia: Fonsai è oggi una provincia dell'impero Unipol. E non se ne va il dolore per la morte di Salvatore che non ha fatto in tempo a vedere la fine di questo dramma. Anche lui era stato condannato a Torino, a 6 anni e 2 mesi. «Papà - mi ha raccontato Jonella per «Il libro nero delle ingiuste detenzioni» - si è estraniato progressivamente, si è chiuso, ha smesso di parlare. La sua testa ha lasciato spazio a una malattia della mente, forse un rifugio per chi ha patito troppo.

Negli ultimi giorni la sua faccia esprimeva sgomento e infelicità perché tutto quello che aveva realizzato era franato. Nel taschino della giacca, per il congedo, ho infilato la matita rossa e blu con cui correggeva il grande Libeskind mentre srotolavano i disegni dei futuri grattacieli di Citylife».

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