Rivolta "fiscale" 5s per il tour di Conte. "Noi non paghiamo"

Gli eletti restii a versare i contributi: "Tanto dice che siamo spacciati..."

Rivolta "fiscale" 5s per il tour di Conte. "Noi non paghiamo"

I soldi sono una delle incognite del nuovo corso del M5s di Giuseppe Conte. A fronte di un partito organizzato, strutturato, con una costosa sede nel centro di Roma - a due passi da Montecitorio - servono fondi. Per il momento la fonte di sostentamento principale per i Cinque Stelle dovrebbe essere rappresentata dai contributi dei parlamentari. 2500 euro al mese, forfettari, come stabilito dalle rinnovate regole sulle rendicontazioni, varate ad aprile scorso. Ma il problema è che deputati e senatori continuano a non versare, proprio come facevano ai tempi di Rousseau, quando i 300 euro mensili per la piattaforma di Casaleggio erano diventati un caso. Molti eletti sono determinati a non contribuire alla rifondazione dell'avvocato di Volturara. Tanti altri tentennano, sperando di usare la leva dei denari in funzione di una nomina nella segreteria che affiancherà l'ex premier. Sicuramente la «rivolta fiscale» dei parlamentari grillini si salda con il malcontento per i primi passi di Conte da leader politico. Tanto che i vertici, negli scorsi giorni, sono dovuti ricorrere alle minacce. «Chi non versa i contributi non sale sul palco con Conte e non parla con i ministri», il messaggio che è rimbalzato nelle chat. L'avvertimento è valso a poco. Nonostante l'ulteriore precisazione dello stato maggiore: i soldi dei parlamentari, in questa fase, servono anche a finanziare il primo tour di Conte in giro per l'Italia. La sottolineatura sulla campagna elettorale, anziché migliorare la situazione, non ha fatto altro che infiammare gli animi tra Montecitorio e Palazzo Madama. «Dobbiamo pagare degli eventi dove Conte dice che alle amministrative siamo spacciati?», si chiede un deputato.

Lo sciopero delle rendicontazioni si collega al disorientamento che si osserva nei gruppi. Gli stessi contiani fanno fatica a spiegare agli scettici le motivazioni di tanta arrendevolezza in vista del voto del 3 e 4 ottobre. La ritirata dalla competizione nelle città pesa di più delle gaffe sui talebani e sulla sharia, più dello sfogo sulla «faticaccia enorme» di guidare un partito schizofrenico. In mancanza di una linea chiara fioriscono le congetture. «Conte vuole fondersi con il Pd?», è uno dei dubbi. Ma anche: «Il suo obiettivo è tornare a Palazzo Chigi e usa il Movimento come un taxi». I più infastiditi arrivano a dire: «I soldi se li facesse dare dai parlamentari del Pd». La verità è che l'ex presidente del Consiglio sta attraversando forse il momento più complicato della sua breve carriera politica. Fuori dal bozzolo di Chigi, il professore è isolato. «Casalino è rimasto a Roma e ora sono tutti allo sbando», osserva una fonte che conosce bene le dinamiche del M5s. Ieri si è rifatto vivo anche Beppe Grillo che ha invitato a firmare il referendum dei Radicali sulla legalizzazione della cannabis. Un tema su cui Conte non si è mai espresso.

Il presidente pentastellato intanto insiste con la strategia del rinvio. Le nomine interne sono state posticipate a ottobre, dopo le amministrative. Eppure la leadership contiana è stata legittimata a inizio agosto dal voto online. Tra vicepresidenti e referenti tematici, nel partito ballano circa dieci poltrone a livello nazionale.

Conte è diviso tra la tentazione di provare a prendersi tutto e la necessità di accontentare le correnti. Nelle ultime ore è finita nel mirino Chiara Appendino accusata di non essersi voluta ricandidare a Torino per puntare a «una poltrona romana», condannando il M5s a un risultato deludente.

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