Hic manebimus optime: il governo non cade. Anzi, di più: regge e tende a rafforzarsi indipendentemente dal «giudizio del popolo» inscenato dai Cinquestelle in un concentrato - sotto vuoto spinto - di inesperienza politica, incapacità gestionale, cupio dissolvi. Consegnarsi mani e piedi all'«alleato»: di rado la storia politica ha offerto un esempio più eclatante di quello voluto dal gruppo dirigente grillino che, da ieri, si può ben definire in totale balia delle onde. Che non sono quelle smosse dall'accozzaglia confusa e arrogante dei votanti su «piattaforma Rousseau», quanto quelle di una politica che si dimostra affare ben più complesso di quanto il Movimento sia in grado di concepire.
Matteo Salvini incassa, ringrazia e vola via (di comizio in comizio). D'altronde lo ripete da giorni, prima allo staff, quindi anche in pubblico, e ha perfettamente ragione: «Comunque vada, per me è un successo». Il voto di ieri l'ha ampiamente dimostrato. «Il governo non rischia, a prescindere da come vada», aveva ragionato con serenità in attesa del responso, concedendosi persino qualche sarcasmo. «Io preferisco la giuria popolare proprio come Sanremo, piuttosto che la giuria di qualità dei fighetti radical chic». Tranquillità ostentata, e rafforzata anche prima dell'inopinata scelta grillina dalla compattezza mostrata dal governo sul controverso «caso Diciotti». «Luigi (Di Maio, ndr) da subito mi ha parlato con chiarezza e mi ha detto: Matteo stai tranquillo, è stata una decisione collegiale, abbiamo agito in maniera limpida e responsabile, il governo siamo tutti noi». Una tesi non solo ribadita dal premier Conte (tra i primi, pare, a comprendere l'enorme errore politico compiuto con la «giuria del popolo»), ma ripetuta in litania dal quartier generale leghista. Dal sottosegretario Giorgetti, «governare significa assumersi delle responsabilità» al viceministro Rixi che sottolineava come il voto su Salvini abbia finito per trascendere in un «voto al governo» (e pace a loro se si vogliono suicidare, il sottinteso). Anche perché ciò che ha fatto il ministro dell'Interno «è quanto previsto dal contratto di governo», forzature comprese. E, come spiegava Salvini ieri, «anche Conte e Di Maio dovranno avvalersi delle immunità». Se questo è il contesto, è facile intuire che la partita del capo leghista era di quelle win-win. Tale da potergli concedere un'altra giornata di piena propaganda elettorale (stavolta in Sardegna, ma poi ci marcerà fino alle Europee). Con dichiarazioni a tutto campo qua e là intervallate da commenti sulla via Crucis imboccata dai Cinquestelle. «Che votino con coscienza, io sono tranquillo di aver agito nel solco della Costituzione... E vado avanti come un treno, non mollo di un millimetro, se pensano di spaventarci con qualche processo...». E poi, visto il risultato: «Li ringrazio per la fiducia, poi non sono qua ha stappare spumante, né mi sarei depresso se fosse stato il contrario. Ero tranquillo prima e sarò tranquillo domani».
Effettivamente, non è dei giudici che il «martire» Salvini può avere paura, anche qualora dalla giunta per l'immunità del Senato uscisse un risultato a lui sfavorevole.
Chi porterà la corona di spine, ancora una volta e per sempre, sarà invece Di Maio, di cui è stata sancita ufficialmente l'incapacità di fronteggiare un'emergenza politica e sopportare una responsabilità così grande. La vita dei prossimi mesi del governo sarà perciò legata all'appannamento definitivo di uno dei due alleati. Ecco perché è l'intero M5S ad aver comunque perso, e chissà se sopravviverà a lungo alla propria eclisse.
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