Primo aneddoto sulla strana propensione della cosiddetta «intellighenzia progressista» a dar per scontata, sempre e comunque, negli Stati Uniti la vittoria del candidato democratico alla presidenza. Nel novembre del 2000 ho seguito per La Stampa delle elezioni molto combattute, quelle tra George W. Bush e Al Gore, il precedente più paragonabile a quello che sta succedendo oggi tra Donald Trump e Joe Biden. In quell'occasione il risultato delle urne fu contestato da entrambi i candidati e ne nacque un duello che andò avanti per più di un mese, fino a quando Gore, dopo un pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti - che con una sentenza assegnò i grandi elettori della Florida allo sfidante repubblicano - accettò di fare un passo indietro. La sera dello scrutinio di quel voto, mentre stavo scrivendo sull'argomento, mi telefonò l'Avvocato Agnelli, che mi mise in viva voce per partecipare alla riunione con i responsabili del giornale sul tema, alquanto controverso, su chi sarebbe stato il vincitore. Nella discussione la maggior parte dei presenti propendeva per Gore, con ragionamenti che lo descrivevano, al di là dei fatti, come un predestinato («come può perdere il vice di un presidente come Clinton?»). Io espressi qualche riserva ma la cosa finì lì. Dieci minuti dopo squillò di nuovo il telefono ed era di nuovo l'Avvocato. Questa volta era solo in stanza ed essendo una persona pragmatica quanto curiosa, che badava al sodo, mi chiese: «Qui mi dicono che vincerà Gore, io ho qualche dubbio. Mi dica Minzolini lei cosa pensa?». Messa così, fui costretto ad essere chiaro e meno reticente con il mio interlocutore che oltretutto era il mio editore. «Vede Avvocato risposi risparmiandogli voli pindarici sulla società americana e tutto l'argomentario tradizionale dei corrispondenti un'elezione contesa la deciderà l'establishment, in questo caso la corte Suprema dove i repubblicani sono tradizionalmente più forti. Inoltre, dato da non trascurare, il Governatore dello Stato decisivo, cioè la Florida, è il fratello di Bush. Se tanto mi dà tanto...».
Secondo aneddoto sulla spiccata propensione della cosiddetta «intellighenzia progressista» a dar per pacifico, sempre e comunque, il successo del candidato democratico alla White House. Tre mesi prima di quelle stesse elezioni, prima di seguire la convention democratica a Los Angeles, andai a intervistare Silvio Berlusconi nella sua villa alle Bermude. Mi ritrovai a discutere davanti ad un aperitivo sempre sulla fatidica domanda: chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti? Nei pronostici del Cav - che pure era amico del padre del candidato repubblicano, Bush senior - il favorito era Gore («appare meglio in tv»), mentre Gianni Letta, che era con lui, propendeva per Bush («ha dietro l'establishment»).
Così a ben vedere anche l 'Avvocato e il Cavaliere, malgrado la loro esperienza e le loro relazioni, sono stati vittime in passato da quella narrazione, che somiglia più ad una cappa, in cui sondaggisti, opinionisti, analisti, professori, giornalisti, media progressisti, avvolgono le presidenziali americane nella speranza di trasformare in realtà i loro sogni. E questo al di là dei numeri, delle ragioni del momento, dei dati, insomma, al di là degli americani. Poi ci possono essere mille ragioni per preferire questa volta Biden a Trump, o viceversa. Quello che storce, però, è che spesso gli argomenti e le previsioni abbiano un sottofondo ideologico esasperato. Così ti spieghi perché la grande ondata democratica in queste elezioni non si sia vista. Una delusione che ha creato i presupposti per dare la possibilità a Trump di rivendicare la vittoria e di contestare in ogni caso il risultato. L'attuale Presidente lo ha già annunciato: «La rimonta di Biden è strana». Così il sofisticato (si fa per dire) meccanismo dell'intellinghenzia progressista è andato in tilt, come il cane che si morde la coda. L'epilogo in ogni caso sarà meno chiaro: i voti per posta saranno delegittimati da Trump («spazzatura»), anche se è chiaro che chi ha scelto quella procedura lo ha fatto anche per paura del Covid e proprio per questo difficilmente può essere considerato un simpatizzante di un Presidente «negazionista»; mentre è evidente che Trump, come all'epoca Bush, si prepara a dare battaglia davanti ad un Corte Suprema di orientamento conservatore, contando anche sulla maggioranza repubblicana che continua ad esserci in Senato. La nomina del giudice conservatore, Amy Barrett, ne è stato il segnale inequivocabile. In ogni caso per metà del Paese, al di là di chi si imporrà, l'epilogo, che uscirà dallo scontro istituzionale che si prepara, sarà poco trasparente. I frutti avvelenati dell'ideologia. Senza contare che in caso di ricorsi che sicuramente ci saranno difficilmente l'attuale amministrazione che ha in mano la macchina del voto, si darà torto.
«Nelle democrazie occidentali racconta il dem Umberto Del Basso De Caro è successo solo quando Beppe Pisanu, all'epoca ministro dell'Interno di Berlusconi, annunciò la vittoria di Prodi nel 2006 contro il Cav per 20mila voti, quando non si trovava neppure una scheda dei votanti di Torre Annunziata».
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