Il 27 dicembre scorso è apparso sul sito del Miur l'atteso bando relativo ai «Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale» (Prin), finanziati con 391 milioni di euro, il cui scopo è «favorire il rafforzamento delle basi scientifiche nazionali e rendere più efficace la partecipazione alle iniziative relative ai Programmi Quadro dell'Unione Europea» (art. 1, comma 1). La domanda, si avverte, «è presentata dal PI, entro e non oltre le ore 15:00 del 29 marzo 2018, pena l'impossibilità di poter accedere alla procedura e la conseguente esclusione del progetto dal bando, esclusivamente attraverso procedure web-based» (art. 4, comma 1). Il PI è il principal investigator, il coordinatore scientifico del progetto presentato (art. 1, comma 4), e le procedure web-based sono semplici operazioni da eseguirsi in rete.
Il principal investigator o il web-based sono però solo la punta dell'iceberg; come l'open access (art. 7, titolo), l'«accesso libero» ai contenuti di una ricerca; oppure il green access (art. 7, comma 1), che il PI dovrà garantire caricando quei contenuti nelle apposite aree virtuali istituzionali; o ancora i prodotti peer-reviewed (ibid.), soggetti alla consueta «revisione fra pari».
Non è il solito snobismo lessicale all'italiana a farci storcere il naso, ma qualcosa di ben più grave: l'ennesimo tentativo, non saprei dire se più dissennato o scellerato, di scavalcare a piè pari la lingua nazionale a vantaggio dell'inglese. Il coordinatore scientifico, per il progetto di cui è guida, è infatti tenuto a presentare la richiesta di finanziamento in inglese; l'italiano, in questo quadro normativo suicida, diventa opzionale: «La domanda è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana» (art. 4, comma 2).
Un'imposizione in contrasto, peraltro, con l'articolo 9 della nostra Costituzione. Per i giudici della Corte Costituzionale (sentenza n. 42, 2017), chiamata a decidere della liceità del Politecnico di Milano di istituire corsi, in nome dell'internazionalizzazione, nella sola lingua inglese, fenomeni come il plurilinguismo, o la diffusione globale di una lingua (oppure il fatto che la si adoperi in certi settori), non possono costringere l'italiano in un angolo: «Al contrario, e anzi proprio in virtù della loro emersione, il primato della lingua italiana diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell'identità della Repubblica».
I pur legittimi obiettivi internazionalizzanti, proseguono i supremi giudici, non devono relegare la lingua italiana, internamente all'università, «a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell'identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare».Davvero un bel regalo sotto l'albero, quello di Valeria Fedeli. Forse la ricorderemo per le «perle», e sarebbe meglio così. Perché il suo ultimo atto del 2017 da ministra è da dimenticare.
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