Un continente trasformato in una terra desolata, impoverita, dove la circolazione delle merci ha subito un infarto collettivo, dove s'ingrossa l'esercito dei senza lavoro e quell'idea di coesione fra Stati si fa trasparente come cartavelina. È l'Europa stretta nella morsa del coronavirus. Uno scenario apocalittico, inimmaginabile solo fino a qualche mese fa. Ma cosa accadrebbe se, sotto la spinta della pandemia, l'incubo ricorrente di una disgregazione dell'Unione europea dovesse materializzarsi? Il rischio non è mai stato così alto, aveva ammonito a metà aprile la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, di fronte alla mancanza di solidarietà fra i Paesi membri. Così poco memori delle parole pronunciate da Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell'Ue: «L'Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per tali crisi». Dal mese scorso, qualche passo in avanti è stato compiuto: fra Mes, Sure e intervento della Bei sono 540 i miliardi messo sul piatto contro l'emergenza. Manca ancora il Recovery Fund, una stampella da 500-1.000 miliardi da sommare al bazooka Bce da 1.000 miliardi. Un'assenza che è la plastica rappresentazione dei contrasti fra Stati del Sud e quelli rigoristi. E del rischio di un traumatico break-up dell'Ue.
Ed è proprio su questo scenario avverso che posa la lente l'European Parliamentary Research Service (Eprs), il think tank del Parlamento europeo, in un rapporto il cui titolo - «Coronavirus e il costo della non-Europa» - non potrebbe essere più esplicito. Quaranta pagine di analisi, zeppe di numeri. Terribili. Fin dalle stime che circoscrivono fra il 3 e l'8,7% la caduta annua del Pil a causa di uno smantellamento del mercato unico. Con le nazioni di più antica militanza nell'Unione, tra cui l'Italia, a subire le perdite maggiori (in media un -5,2% del Pil), quasi a voler dimostrare come la dissoluzione dei legami comunitari arrechi danni anche ai Paesi più strutturati. La Germania è dunque avvertita. In soldoni, si tratta di un conto salato, oscillante fra i 480 e i 1.380 miliardi. Ogni 12 mesi. Ai quali andrebbero sommati altri 2.200 miliardi, pari al 14% del prodotto lordo totale, nell'arco di un decennio da attribuire ai danni provocati in 50 settori. Risultato: «Se entrambi i problemi dovessero svilupparsi contemporaneamente, l'economia dell'Ue alla fine sarebbe tra il 17 e il 22,7% più piccola». Un disastro, al netto della distruzione di ricchezza pari a 1.160 miliardi provocata dalla pandemia sulla base di una contrazione economica quest'anno del 7,5%.
Sulle macerie dell'Ue, verrebbero poi alzati i muri, dazi, barriere doganali. Con effetti devastanti sul commercio, i cui flussi crollerebbero del 30%. Nel caso in cui l'Ue fosse sostituita da un accordo commerciale regionale standard, le importazioni di merci diminuirebbero in media del 36% e il tasso di penetrazione delle importazioni sarebbe inferiore del 25%. «Gli Stati membri non sarebbero così competitivi da soli», sentenzia il rapporto contraddicendo la vulgata dei sovranisti.
Il documento di Eprs ricorda invece come azioni congiunte porterebbero a potenziali guadagni fino a 2.200 miliardi dopo un periodo di rodaggio decennale. I maggiori benefici, pari a 713 miliardi, deriverebbero dalle misure necessarie per portare a termine il mercato unico.
Altri 500 miliardi sarebbero garantiti dalla spinta impressa alla politica green e agli investimenti in ricerca, innovazione, robotica e intelligenza artificiale, mentre 322 miliardi sarebbero frutto del completamento dell'unione monetaria. Infine, 360 miliardi sarebbero generati dal rafforzamento delle politiche in materia di giustizia e dal perfezionamento del mercato digitale. Insomma: l'Unione fa la forza. Divisi, si perde.
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