Roberto Prosseda è l'uomo al piano. È nato a Latina nel 1974, è pianista di professione e da dodici anni a questa parte sfida sul palco Teotronico, il pianista robot (dotato di ChatGpt incorporata). Una creatura futuristica inventata da un artigiano di Imola, Matteo Suzzi. È successo anche la settimana scorsa al Collegio Borromeo di Pavia: un concerto a colpi di brani di Scarlatti, Mozart, Chopin, Rachmaninoff e Milhaud, inframmezzati da interventi dei protagonisti.
Roberto Prosseda, in che cosa consiste la sfida?
«Di fatto è una lezione/concerto, in cui cerco di raccontare in che cosa consista il lavoro di interprete musicale, come funzioni la musica e i principi che la regolano; il tutto, appunto, in forma dialogica e di sfida, attraverso il confronto fra gli stessi pezzi, eseguiti prima dal robot e poi da me».
Il robot che ruolo ha?
«Rappresenta l'oggettività assoluta, spesso vista come un pregio, oggi. Ritiene di suonare meglio, perché rispetta la partitura in modo assoluto, e mi accusa di essere un cialtrone, arbitrario e impreciso, e di non andare a tempo. Lui invece è perfetto, perché quello che fa è esattamente quello scritto nella partitura».
Invece lei, l'umano, che cosa fa?
«Io interpreto, in base alla mia sensibilità: mi prendo questa libertà, perché è giusto così, anche se secondo il robot questa libertà è una scusa... Ma, come non parliamo tutti allo stesso modo, o uno chef cucina il medesimo piatto diversamente da un altro, così è l'interpretazione. E parlo dell'importanza dell'errore».
Ovvero?
«L'errore è visto come qualcosa da nascondere, invece per un artista è un'occasione di scoperta. Per arrivare al cuore delle persone, la priorità non può essere non sbagliare, bensì rendere la tensione musicale; e, per farlo, bisogna prendersi qualche rischio, incluso quello di sbagliare».
Che rapporto c'è fra musica e intelligenza artificiale?
«L'Ia è una risorsa, ma la musica è basata su stati d'animo: è quanto di più umano esista. Teotronico ha 53 dita e ne è molto orgoglioso, ma io gli dico che conta come le usi, e non quante siano. Puoi averne soltanto dieci ma ottenere una qualità migliore».
Che pezzi suonate?
«Per esempio il Notturno di Chopin, su cui mi baso per spiegare la tensione armonica e melodica. Una Sonata di Scarlatti, la Marcia Turca di Mozart, uno Studio di Chopin... E poi il robot suona brani scritti apposta per lui, per mostrare come riesca a fare cose per noi impossibili, con le sue 53 dita. Infine propongo un pezzo a due pianoforti, come dire che possiamo cooperare, mantenendo ciascuno la propria identità».
In che cosa eccelle il robot?
«Ha un controllo maggiore della polifonia: può anche suonare dodici voci, controllandole tutte, e gestire ritmi complessi contemporaneamente. Ed è più efficiente nella velocità, nell'esecuzione meccanica e precisa, per esempio di brani veloci e ritmici come quelli di Stravinskij o Prokofiev. Poi se gli chiedi: quanto studi? Lui ti risponde: niente. E che repertorio hai? Infinito...».
E lei?
«Io miglioro col tempo, perché per me la musica è un arricchimento continuo, mentre per il robot è un compito; e per lui la partitura è una serie di istruzioni da eseguire, invece per me è il riflesso dell'animo di un compositore. Detto ciò, oggi l'Ia è in grado anche di simulare gli stati d'animo, il che apre una grande questione rispetto all'autenticità».
Vi mettete in difficoltà?
«Sì. Io gli dico che manca di passione nel suo modo di suonare, e lui non capisce che cosa voglia dire. D'altra parte, il robot mi fa la radiografia quando suono: hai sbagliato 32 volte, 47 eri fuori tempo... è disarmante».
Come risponde?
«Dico che ho dato la precedenza a cose diverse dalle note giuste; che è meglio una nota sbagliata ma con il significato giusto, anziché una nota giusta con il significato sbagliato. Ci sono pezzi, come il Notturno di Chopin, dove conta l'espressività, e il robot mostra le lacune maggiori. E, alla fine, suono soltanto con la mano sinistra, per dimostrare che con cinque dita posso fare comunque meglio di lui».
Però non vorrebbe le sue 53 dita?
«Il suo vantaggio è che non le sposta: sono una rastrelliera. Non ha margine di errore. Però suonare non è solo abbassare i tasti... Il pianoforte, come la tecnologia, non è un punto d'arrivo: è uno strumento per un fine, che è la musica, la quale a sua volta è un modo per vivere più intensamente la nostra esistenza».
Non gli invidia
qualcosa?«Beh, il fatto di non avere il problema del jetlag e di studiare: è sempre pronto. E poi non beve, non fuma, non ha vizi e non si lamenta, quindi è il sogno di ogni organizzatore. Però dovrebbe imparare a sbagliare».
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