Sfilata di bandiere. Ecco la resistenza di giovani e donne. Ma il regime spara sul seme di libertà

Da Jalalabad ad Asadabad fino a Kabul: nelle strade con il vessillo nazionale. Le milizie reprimono nel sangue. Ma la miccia della rivolta è accesa.

Sfilata di bandiere. Ecco la resistenza di giovani e donne. Ma il regime spara sul seme di libertà

Li abbiamo illusi, traditi, abbandonati. Eppure qualcosa è rimasto. Un seme leggero, germogliato nel fango del voltafaccia. Un seme, raccolto e coltivato per ora da pochi audaci, ma capace di regalar coraggio anche ad altri. E sollevare brezze di speranza. Ce lo suggerisce l'ardimento quasi temerario di chi da Jalalabad, nell'est del paese, fino ad Assadabad, tra le montagne dell'Hindu Kush, e - da ieri pomeriggio - anche a Kabul, non ha paura di sventolare la vecchia bandiera afghana, celebrare l'indipendenza del paese, ripudiare l'oscurantismo dei nuovi padroni. Una rivolta spontanea e sorprendente che marca il paradosso di un 19 agosto, anniversario dell'indipendenza dall'impero inglese, celebrato mentre il paese infila il tunnel di una nuova, tetra dominazione. Ad Assadabad, un centro del Kunar a 19 chilometri dal Pakistan, la rivolta s'accende quando alcuni giovani inneggiano all'indipendenza e issano la bandiera nazionale in piazza. Non è quella bianca dei talebani con i versi della «shahada», la testimonianza di fede dell'Islam. È il tricolore nero, rosso e verde del deposto governo. È quella dell'Afghanistan scioltosi come neve al sole. La risposta dei nuovi signori è inevitabile. Ma i giovani non fuggono. E a loro s'unisce una folla di un centinaio di persone. Difendono il loro simbolo, accoltellano uno dei barbuti. A quel punto i kalashnikov talebani sparano a raffica, uccidono due manifestanti mentre gli altri fuggono. Ma non è finita. Alla rivolta della piccola Assadabad segue quella della grande Kabul. D'improvviso un tricolore lungo 200 metri trascinato da un gruppo di donne in burqa attraversa il centro inseguito da un corteo di centinaia di persone. In un attimo le voci si uniscono in un solo grido «Lunga vita all'Afghanistan. La nostra bandiera è la nostra identità». È una sfida aperta all'emirato, ma i talebani, forse sorpresi, forse fedeli al canovaccio che li vede interpreti di un'inattesa moderazione, non hanno il tempo di reagire. L'inattesa clemenza fa a pugni con la violenza registrata 24 ore prima a Jalalabad dove i talebani hanno sparato ad altezza d'uomo uccidendo cinque dimostranti. E mentre tra le strade di Jalalabad si continua a sparare e morire, resta assai difficile dire se tutto ciò sia un fuoco di paglia o una nuova resistenza. Di certo i sussulti di Jalalabad, Assadabad e Kabul non sono cosa da poco. Nel 1996 quando i talebani conquistarono per la prima volta il paese, nessuno pensò a scappare. O a protestare. Allora nessuno s'indignò davanti a un integralismo opprimente deciso a spegnere radio e televisori, segregare le donne, sgozzare gli apostati e mozzare mani e piedi a ladruncoli e delinquenti. Allora quell'ordine nuovo era sconosciuto, ma anche benvenuto. Metteva fine alle razzie, alle violenze dei capi mujhaeddin che, ritiratisi i sovietici, si erano trasformati in arroganti signori della guerra. Stavolta è diverso. Nonostante gli innumerevoli errori, la presenza occidentale s'è lasciata dietro illusioni forse avventate, ma irrinunciabili. Nel nome delle quali le donne non accettano di tornare prigioniere dei burqa e gli abitanti delle città non si riconoscono più negli ordini di un mullah o nella legge del Corano. Nonostante i nostri voltafaccia, gli afghani non dimenticano l'ebbrezza della libertà. Non scordano il sogno di un Afghanistan capace di misurarsi con il resto del mondo. E non tollerano l'inganno talebano.

Sono i primi a non credere alla favola dei «tale-buoni» migliorati con il tempo, a ricordarci che anche i terroristi dell'Isis distribuivano video e maneggiavano telefonini, ma non per questo erano democratici e clementi. Gridano «la bandiera è la nostra identità». E c'insegnano il coraggio di combattere nel nome di quello che abbiamo loro insegnato.

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