Amareggiato: «Non hanno nemmeno voluto ascoltare il segretario dell'epoca, Stetter. Era stato lui a proporre di pagare le mie prestazioni intellettuali, che ho fatto valutare da una società. Ebbene, le mie prestazioni valgono più di quel che mi hanno dato. E alla Feps ho anche regalato un libro rinunciando ai diritti».
L'uomo amareggiato è Massimo D'Alema portato davanti a un tribunale europeo da venticinque fondazioni fra cui la sua stessa creatura, «Italianieuropei» che gli chiedono indietro mezzo milione di euro che ha ricevuto dalla Feps, la Fondazione dei Socialisti Europei che raccoglie tutte le fondazioni europee della sinistra. È una storia intricata e ci vorrebbe molto spazio per raccontarla nei suoi dettagli burocratici e comunque è una storia che non mette in discussione la moralità dell'ex presidente del Consiglio e leader comunista. Ma è una storia paradossale e verissima: i socialisti europei, anche italiani della fondazione di D'Alema, fanno causa al fondatore perché rivogliono indietro compensi secondo loro non dovuti.
In breve: Massimo D'Alema fu messo fuori dal Parlamento e dunque anche dallo stipendio parlamentare da Matteo Renzi quando rottamò la vecchia guardia. Dopo qualche anno, D'Alema accettò di ricevere un compenso annuale di circa centoventimila euro dalla Fondazione che raccoglie la sinistra europea. Poi c'è stato un cambio della guardia e al vertice, è arrivato il nuovo segretario Laszlo Andor che ha fatto una verifica sulla destinazione dei fondi, che vengono direttamente dal Parlamento di Strasburgo. Ed è nata una contestazione sulla legittimità delle retribuzioni a D'Alema e la cosa finisce in tribunale con disappunto dello stesso D'Alema il quale dice di essere profondamente amareggiato e aggiunge: «Andremo in giudizio e poi sarò io a chiedere i danni».
D'Alema ha giocato la sua identità, la sua immagine, la sua permanenza in politica creando e sviluppando la Fondazione «Italianieuropei» che poi si è federata con le altre consorelle europee. L'ultima immagine fotografica mostra un uomo che ha scelto di apparire (e dunque essere) impeccabile: dal capello dal taglio agli occhiali fino ai polsini neri su camicia immacolata e cravatta blu a pois bianchi. Una uniforme concepita sulla impeccabile banalità dell'eleganza (l'eleganza maschile è fatta di non vistosità) ma certo è che questa immagine che ha di sé e laboriosamente rilanciata dopo la cacciata negli inferi, oggi soffre molto.
Nessuno lo accusa di avere preso soldi illegali, ma di aver beneficiato di un accordo personale con l'ex segretario generale Stetter. Ma è qui che emerge la dimensione dell'ego di D'Alema il quale sostiene testualmente che la prestazione intellettuale del proprio pensiero, fatta valutare da un'agenzia specializzata in prestazioni intellettuali, ha rivelato un prodotto lordo il cui valore monetizzato è di gran lunga eccedente quello dei compensi ricevuti. Onestamente non ricordiamo un caso simile: quello di qualcuno che si rivolge ad una agenzia che misura il «rating» delle idee e ne stabilisce il valore di cambio, come una moneta, bitcoin inclusi.
D'Alema l'ha fatto e dice: vi ho dato col mio cervello più di quanto mi abbiate retribuito. E ci metto per buon peso anche un libro che ho scritto e donato senza alcun compenso. Ora toccherà al tribunale e poi al Parlamento europeo trovare una soluzione che calzi l'esatta e impeccabile immagine di D'Alema. Ma resta il fatto che quest'uomo sia chiamato davanti a un tribunale per una seccante questione di compensi contestati, dalla stessa sinistra che lui ha fondato.
Una insurrezione di famiglia, per di più in Europa, di entità come «Fondazione del socialismo», «Fondazione Gramsci» - la mitica sacra Fondazione Gramsci del Partito comunista italiano - «Fondazione socialista Pietro Nenni» e poi, carne della sua stessa carne, «Italianieuropei». Dopo la valutazione monetaria del valore intellettuale, che è certamente una bella risorsa, non avevamo mai sentito neanche questa storia: quella di un leader della sinistra chiamato in tribunale dalla sua stessa sinistra.
Non vorremmo abusare dell'espressione «crollo di un mito» forse non c'è alcun mito da far crollare, ma di sicuro crolla a nostro parere quel che restava malamente in piedi di un muro fatto di nomi ormai privi di significato e di ego inamidato.
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