Per Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione e alfiere di Forza Italia, il 28 maggio è legato al vertice allargato Nato-Russia del 2002, venti anni fa esatti, che portò l'Italia di Berlusconi al centro della diplomazia mondiale. «Lo spirito di Pratica di Mare è ancora vivo» celebra la ricorrenza mentre i tank russi cercano di sottomettere l'Ucraina.
Ministro Brunetta, perché in Italia lo «spirito di Pratica di Mare» sembra una rievocazione storica cara solo al centrodestra?
«Perché a sinistra ancora si fa fatica a dare a Berlusconi quel che è di Berlusconi. Al vertice Nato di Pratica di Mare, venti anni fa, spiazzò tutti: riuscì non solo a portare allo stesso tavolo George W. Bush e Vladimir Putin, ma anche a far decollare il Consiglio a venti allargato alla Federazione russa e a far firmare la Dichiarazione di Roma, in cui i capi di Stato e di Governo si impegnarono a costruire insieme una pace duratura e inclusiva nell'area euro-atlantica sui principi della democrazia e della sicurezza cooperativa. In estrema sintesi, a Pratica di Mare finì la Guerra Fredda. Oggi, con un nuovo conflitto nel cuore d'Europa e l'inasprirsi dello scontro Stati Uniti-Russia, dobbiamo recuperare quel clima e spiazzare una seconda volta. A quel sogno inclusivo di Berlusconi, al sogno di ricomporre una casa comune europea dall'Atlantico agli Urali, come diceva De Gaulle, lavorando nel solco della Conferenza di Helsinki, io credo ancora».
Vent'anni fa l'Italia con Berlusconi era diventata il perno di un'alleanza mondiale con Usa e Russia. Ora il governo Draghi sta cercando di mediare tra le parti di un conflitto che sembra essere sfuggito di mano...
«La ritrovata centralità dell'Italia di Draghi può aiutare moltissimo, come aiutò allora la centralità dell'Italia di Berlusconi. Il nostro premier ha appena ricordato alle Camere che l'obiettivo dell'Esecutivo italiano è proprio la ricerca di una pace duratura, lo stesso della Dichiarazione di Roma del 2002. A quel tempo, la globalizzazione delle sfide, dal terrorismo al narcotraffico, richiedeva reazioni efficaci, anche sul fronte della non proliferazione e della prevenzione del traffico di armi. Il convincimento condiviso, che portò a Pratica di Mare, fu che a stimoli uguali dovessero corrispondere risposte unitarie all'interno di istituzioni comuni. Esisteva, insomma, un acquis tra Nato e Russia che fu possibile sviluppare».
Quali passi falsi sono stati compiuti, dopo, per arrivare a una guerra subcontinentale?
«Un assetto stabilizzante basato su istituzioni comuni e sull'appartenenza al G8 si ruppe nel 2014: dopo l'intervento russo in Crimea, gli alleati della Nato decisero di sospendere la cooperazione con Mosca. Da quel momento, la foresta si è richiusa e i passi falsi si sono moltiplicati. Fino all'ultimo, il più grave: l'invasione dell'Ucraina. La soluzione, ora, va trovata nella complessità. Non funzionano i ragionamenti duali: vittoria-sconfitta, pace-guerra, buoni-cattivi. La teoria dei giochi ci dovrebbe spingere ad abbandonare le soluzioni non cooperative. Dobbiamo puntare a equilibri multipli, moltiplicando i trade off, gli scambi, e i pay off, i dividendi. Gas-grano, Nato-armi. Complessità è anche l'allargamento della Nato a Svezia e Finlandia. Complessità è l'impegno di Draghi, con le conversazioni con Zelensky e Putin, per lo sblocco delle importazioni di grano dall'Ucraina, perché dobbiamo arrivare a separare la soluzione del conflitto dallo spettro di una crisi alimentare planetaria. Complessità è saper giocare sui diversi tavoli. Nel frattempo, ovviamente, il cessate il fuoco».
Dopo l'ultima telefonata di Draghi con Putin, dove il leader russo ha giudicato prematura la pace, quali carte restano in mano al premier?
«L'Italia non lavora a una pace contro, lavora a una pace per. Una pace per rilanciare l'orizzonte di una nuova Europa, nel quadro di un disarmo autentico, come quello che portò, nel 1987, a rimuovere gli euromissili e gli SS20. Abbiamo bisogno di rifondare un'architettura paneuropea di sicurezza su basi autentiche di sovranità europea. Penso che le proposte provenienti dalla Conferenza sul futuro dell'Europa per abolire l'unanimità per le decisioni in seno al Consiglio, in particolare in materia di politica estera, siano l'inizio di un percorso per raggiungere una piena sovranità europea: come dimostra la dialettica sulle sanzioni, la nostra sovranità non può dipendere dal liberum veto di uno Stato. Solo se saremo coesi all'interno potremo essere aperti e assertivi verso l'esterno, in direzione di un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza in Europa, nel contesto dell'Osce e della Politica di Vicinato dell'Unione: era questa la quarta tappa del piano presentato dal ministro Di Maio, un primo e intelligente passo nella giusta direzione. Non per ritornare a Yalta, ma per ricominciare da Helsinki».
Salvini ha ricevuto molte critiche per la sua intenzione di andare a trattare a Mosca. Quale è la sua opinione? Gli ha parlato?
«No, non ci siamo parlati. Il momento è delicatissimo. Le diplomazie sono al lavoro. È necessario che si muovano i governi. Dobbiamo evitare ogni ambiguità e ogni azione che potrebbe suonare come una legittimazione dell'aggressione. Ma Salvini è uno dei leader della maggioranza: ne è perfettamente consapevole».
Come sta rispondendo il Palazzo alla crisi ucraina? Vede crepe o dissonanze nel clima di unità nazionale?
«Nessuna crepa, anzi pieno e incondizionato sostegno alla gestione della crisi ucraina da parte del governo Draghi, come si è visto il 19 maggio in Parlamento dagli interventi in replica all'informativa del premier. Il presidente del Consiglio ha chiarito la solidità della posizione dell'Italia rispetto agli obiettivi già condivisi nella risoluzione votata il 1° marzo a larga maggioranza: cercare la pace, fronteggiare le conseguenze della guerra sul piano umanitario, alimentare ed energetico, mantenere la pressione su Mosca per portarla al tavolo dei negoziati, sostenere il Governo ucraino nei suoi sforzi per respingere l'invasione, in accordo con Ue e Nato. L'univocità e la coesione della linea europea non sono in discussione».
Come economista quale scenario prevede per l'Italia, sia a livello macro che per le tasche dei cittadini?
«L'Italia è tornata credibile e affidabile, allineata ai Paesi più virtuosi. Abbiamo centrato finora tutti gli obiettivi del Pnrr e continueremo a farlo. Il Pnrr è un contratto: soldi in cambio delle riforme che non avevamo mai fatto. Pubblica amministrazione, giustizia, concorrenza, fisco, appalti. Nel 2021 la crescita del Pil è stata record: +6,6%. Se non ci fosse stata la guerra in Ucraina, nel 2022 avremmo potuto raggiungere un altro +4,5-5% e più che recuperare ciò che avevamo perso per la pandemia. Certo che il conflitto non ci voleva, dopo la crisi pandemica. Ma io sono allergico ai catastrofismi e sto alle previsioni del Fmi: +2,3%. Se arriveremo quanto prima a un cessate il fuoco e a una stabilizzazione della situazione bellica e comincerà, nella seconda parte dell'anno, la ricostruzione dell'Ucraina, avremo un Pil di nuovo in aumento, tale da compensare le perdite della prima parte del 2022».
Lei ha sempre fatto sfoggio di ottimismo. Il peggio è passato?
«Dobbiamo temere due pericoli: l'inflazione e la stagnazione, ossia la stagflazione, la peggiore delle malattie. Ma l'inflazione è dovuta per due terzi all'aumento dei prezzi dell'energia. Per questo è fondamentale stabilizzarli entro quest'anno e avere un'inflazione del 2-3%, valore fisiologico e positivo, nel lungo periodo, rispetto allo 0 o ai valori negativi che pure abbiamo conosciuto. Bene, in quest'ottica, il piano RePowerEU appena presentato dalla Commissione, avanti con gli auspicati price cap e decoupling.
Dobbiamo lavorare per la sovranità dell'Europa in campo energetico e geostrategico, sulla scia del Consiglio europeo informale di Versailles di marzo e dell'agenda Draghi-Macron. Nessuno si salva da solo: la salvezza è nell'Europa».
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