È uno dei saggi della Repubblica e dispensa consigli, anche non richiesti, ai potenti. E con il linguaggio felpato che gli è proprio Sabino Cassese non lesina suggerimenti sul nuovo rebus che attanaglia Giorgia Meloni (nel tondo): il probabile referendum sul premierato e le sue conseguenze. La premier ha cercato in questo week end di spersonalizzare una scadenza che potrebbe diventare problematica, ponendo dei paletti e lanciando un messaggio chiaro: l'esito del referendum non ha nulla a che vedere con la durata del governo, per cui anche se dovesse perderlo resterebbe a Palazzo Chigi.
Ma sarà proprio così? Cassese, il saggio, si limita ad invitare la Meloni alla prudenza: «Mi auguro - è la sua speranza - che nel confronto parlamentare si allarghi la maggioranza in modo da evitare il referendum che è per sua natura uno strumento plebiscitario. È fatale infatti, voglia o meno la premier, che si inneschi un processo di personalizzazione. In un sondaggio che studiò le ragioni della sconfitta al referendum della Riforma Renzi, l'80% degli intervistati dichiararono di aver votato contro il capo del governo non contro la Riforma».
Quel rischio è ben presente nella mente di una persona accorta come la Meloni anche se i suoi inquadrano le sue uscite di questi giorni più nella narrazione della campagna elettorale che su altro: «Giorgia ha fatto bene - osserva Alberto Balboni, regista della riforma al Senato - perché ha dimostrato ancora una volta di essere battagliera. Quando si presenta libera dai condizionamenti piace alla gente. E poi le critiche della sinistra sono sempre strumentali. Hanno presentato addirittura emendamenti che tolgono il diritto di voto ai senatori a vita. Vorrebbero trasformare la Segre in una senatrice di serie B».
Fin qui la propaganda elettorale, se si scruta però più dentro l'inner circle della Meloni ci si accorge che l'incognita del referendum pesa, eccome. Uno degli strateghi della battaglia sulle riforme di Fratelli d'Italia, di cui non si può fare il nome per non averlo sulla coscienza, lo ammette. «È chiaro - confida - che il governo non potrebbe superare indenne la sconfitta sul referendum su una riforma che è diventata la sua bandiera. Lo sa anche un bambino. Ecco perché è troppo rischiosa l'ipotesi di andare alla prova referendaria prima delle elezioni politiche. Semmai andrebbero valutate con attenzione due opzioni: quella di tenere il referendum insieme alle politiche o ancor meglio, almeno per me, farlo addirittura dopo».
Il piano è quindi è evitare, depotenziare o rinviare il referendum. Gianfranco Rotondi, democristiano approdato nelle fila di Fratelli d'Italia, ad esempio, tenterebbe in tutti i modi di allargare la maggioranza. «Bisogna tornare al vecchio schema democristiano - è la sua opinione - di non far coincidere maggioranza delle riforme con quella di governo. Quindi allargare, allargare il consenso per evitare che un'ipotetica sconfitta sia messa sul groppone di Palazzo Chigi. Per lo scopo abbiamo solo due interlocutori: Renzi o i 5stelle visto che il Pd ha fatto del bigottismo istituzionale la sua ideologia».
In realtà la ritrosia della Schlein ha ragioni politiche più che di merito: la battaglia nel referendum potrebbe essere il collante del cosiddetto «campo largo». Anzi, nel Pd molti sono convinti che il referendum rappresenti il grimaldello per far saltare l'attuale quadro politico. «Ora la Meloni - prevede il piddino Matteo Orfini - giura che se perde il referendum non si dimetterà, voglio vederla alla prova, quando imboccherà il piano inclinato della sconfitta». I paragoni non mancano da Cameron, il primo ministro inglese che perse il referendum sulla Brexit, a Renzi.
In queste condizioni è ovvio che l'obiettivo di allargare la maggioranza parlamentare resti un pio desiderio. È più probabile, invece, che la Meloni indossi i panni del console romano Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore, usi cioè la tattica del rinvio per individuare il momento più propizio per la battaglia. «Può scegliere tempi - è il parere di Stefano Ceccanti, il piddino più esperto in referendum - e non è poco.
Per cui se i sondaggi gli saranno favorevoli ci proverà il 2025-26, magari abbinandolo con possibili elezioni anticipate. Altrimenti lo fisserà con le politiche a scadenza naturale o addirittura dopo. Nessuno lo vieta».
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