«Fa perdere tempo alla giustizia americana». Non ha usato mezzi termini il giudice federale della Pennsylvania che ha deciso di rigettare l'ennesimo ricorso per presunti brogli elettorali presentato dal team legale di Donald Trump guidato dall'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. Tra le motivazioni del rifiuto c'è proprio la «scarsità di prove» portate a sostegno di una tesi molto grave, ovvero che elezioni presidenziali dello scorso 3 novembre sarebbero state truccate per favorire la vittoria del democratico Joe Biden.
È il trentesimo smacco subito dal team di Giuliani in pochi giorni, ma nulla sembra fermare la determinazione sua e del presidente nel continuare una battaglia che fa sempre più apertamente parlare i suoi avversari (ma anche un numero crescente di esponenti del suo stesso partito repubblicano) di attacco alla democrazia americana: Giuliani ha già annunciato di voler ricorrere anche contro questo rifiuto, alludendo alla possibilità di arrivare alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Nel frattempo Donald Trump, intervenendo a distanza al G20 di Riad in Arabia Saudita, ieri ha difeso la sua decisione di ritirarsi dall'accordo sul clima di Parigi, definendolo «ingiusto e di parte», «progettato per uccidere l'economia americana» e ha ammesso di «non vedere l'ora di lavorare con la presidenza italiana» che scatta il primo dicembre, segno di come The Donald guardi al futuro dalla prospettiva della Casa Bianca.
Poco prima, del resto, il presidente aveva affermato che i suoi avvocati avevano trovato «centinaia di migliaia di voti illegali in almeno quattro Stati, un numero sufficiente a capovolgere il risultato ufficiale», e aveva invitato «i legislatori e i tribunali a trovare il coraggio di fare quello che va fatto per salvare l'integrità delle nostre elezioni, perché il mondo ci sta guardando». Per l'ennesima volta, però, nessuna prova concreta è stata portata a supporto di un'affermazione così radicale, il che a ormai venti giorni dal voto spinge inevitabilmente verso un necessario chiarimento politico. Lo fanno capire i democratici, sconcertati di fronte al rifiuto di Trump di riconoscere una sconfitta che è nei numeri e nei fatti: sei milioni di voti in più per Biden e 306 grandi elettori a lui attribuiti, esattamente gli stessi che aveva ottenuto Trump quattro anni fa e che lo avevano fatto parlare di «una vittoria a valanga» su Hillary Clinton. Ieri fonti democratiche della Camera dei rappresentanti hanno chiarito che il partito di Biden è ormai pronto a percorrere «ogni strada, incluso il ricorso all'Fbi» per ottenere l'avvio della transizione dei poteri che i funzionari della Casa Bianca tuttora si rifiutano di avviare.
C'è poi il fronte interno repubblicano. Trump riesce tuttora a mantenere una presa piuttosto salda sul suo partito, ma il ricorso da parte sua a pressioni sempre più spregiudicate sui suoi membri potrebbe ritorcerglisi contro. Ne è stato un recentissimo esempio il rifiuto da parte dei legislatori repubblicani dello Stato del Michigan, da lui convocati appositamente alla Casa Bianca con una mossa ai limiti della legalità, di appoggiare la sua richiesta di votare grandi elettori favorevoli a lui invece che a Biden (che nel Michigan ha vinto): non ci risultano notizie che indichino un cambiamento dell'esito del voto del 3 novembre nel Michigan, hanno risposto, e quindi seguiremo la legge.
Il 14 dicembre, data del voto dei Grandi elettori che dovranno indicare il prossimo presidente, farà da spartiacque: una volta che Biden sarà stato indicato come il prossimo presidente, si vedrà se il Grand Old Party vorrà continuare a condividere il suo futuro con Trump.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.