Donald Trump esenta l'Italia dal divieto di acquistare petrolio dall'Iran, dopo che ieri sono scattate le sanzioni contro Teheran in seguito all'uscita degli Usa dall'accordo sul nucleare. Accordata anche ad altre sette nazioni (Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Grecia, Turchia, Taiwan), la «grazia» è però solo temporanea: entro sei mesi, salvo proroghe concesse dal segretario di Stato Usa, le importazioni iraniane dovranno essere azzerate.
Insomma, è meglio non cantar vittoria. Semmai si tratta di una sospensione che potrebbe porre al nostro Paese seri problemi di ricalibratura nei rapporti d'affari, piuttosto consolidati, con il regime degli ayatollah, da cui abbiamo importato nei primi otto mesi dell'anno 5,2 milioni di tonnellate di greggio. Per capire l'incidenza sugli approvvigionamenti dell'oro nero iraniano, basti ricordare che pesa sul totale per il 12% e fa di Teheran il nostro quarto fornitore a livello mondiale. Se asseconderà i desiderata di Washington, Roma dovrà quindi trovare il modo di compensare l'ammanco di forniture rivolgendosi probabilmente all'Azerbaijan, che già ci vende 7,8 milioni di tonnellate, all'Arabia Saudita (4,9), alla Russia (3,5), oppure agli Stati Uniti (1,2). Sempre che il milione di barili al giorno sottratto al mercato dalle sanzioni non provochi un buco nell'offerta globale.
Ma non è solo il versante petrolifero a rendere incerta la situazione. Con 5,1 miliardi di euro di interscambio commerciale, siamo stati infatti nel 2017 il primo partner dell'Iran all'interno dell'Unione europea. Non essendo ancora chiaro se Bruxelles intenda contrastare le sanzioni per via diplomatica (canale peraltro già intasato dalla possibile introduzione di dazi Usa sulle auto) o attraverso strumenti a difesa delle imprese mettendo in campo la Banca europea per gli investimenti, il rischio è che l'Italia batta in ritirata facendo saltare possibili contratti per almeno 30 miliardi. Molte imprese, tra cui nomi di punta come Ansaldo, Danieli, Fata, Maire Tecnimont, potrebbero così decidere di imitare l'Eni. Nonostante una presenza nella Repubblica islamica risalente all'epoca Mattei, il gruppo del Cane a sei zampe ha annunciato di non avere più obiettivi nel Paese medio-orientale.
Del resto, l'azione di moral suasion esercitata dalla Casa Bianca ancor prima dell'entrata in vigore delle sanzioni sembra aver portato risultati: oltre 100 compagnie internazionali, da Total a Psa (marchi Peugeot, Citroën e DS), da Siemens a Deutsche Telecom, da Air France a British Airways, hanno abbandonato l'Iran o hanno rinunciato ad investire nel Paese. La vice presidente di Confindustria per l'internazionalizzazione, Licia Mattioli, non nasconde di essere preoccupata: la seconda tornata di sanzioni «ci mette in grandissima difficoltà» perché colpisce «tutte le banche iraniane, inclusa la Banca Centrale» rendendo «veramente impossibile» per le imprese italiane operare» nella Repubblica islamica.
Non così pessimista è Augusto Di Giacinto, responsabile della sede di Teheran dell'Ice, l'Istituto per il commercio estero: «Difficile fare previsioni sull'impatto delle sanzioni Usa, ma di sicuro sono ancora molte le imprese italiane che vogliono venire in Iran».
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