Il processo di islamizzazione della Turchia corre sempre più spedito. Dopo i lunghi passi del presidente Recep Tayyp Erdogan per far diventare Ankara il faro del mondo musulmano, ieri si è consumato l'ennesimo strappo, non solo con l'Occidente ma con i principi fondamentali della civiltà. Il presidente turco ha infatti deciso di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul (sulla lotta alla violenza contro le donne), sottoscritta da 32 Paesi nel 2011. Paradossale, se si pensa che proprio la Turchia è stata la prima firmataria del protocollo, siglato oltretutto nella principale città turca, e che solo pochi giorni fa, in occasione dell'8 marzo, Erdogan aveva condannato «ogni forma di violenza o costrizione fisica e psicologica» nei confronti delle donne, definendole un «crimine contro l'umanità».
Che cosa è successo allora? L'Akp, il partito di Erdogan, è da diversi mesi che spinge per abbandonare la Convenzione, l'ha sempre apertamente attaccata, sostenendo che minacci l'unità familiare, incoraggi i divorzi e, come spiega il quotidiano filogovernativo Daily Sabah, «sia utilizzata dalla comunità Lgbt per ottenere una più ampia accettazione nella società». Di fronte a queste pressioni, Erdogan ha deciso di emettere un decreto per rinnegare il trattato.
Ma che cosa contiene di tanto indigeribile la Convenzione di Istanbul? Semplice: per prima cosa, la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. I Paesi firmatari dovrebbero prevenirla, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli. Ma, soprattutto, questo è il primo trattato internazionale a contenere una definizione di genere, che è descritto come «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini». La progressiva islamizzazione della società turca, però, ha fatto sì che molti diritti siano venuti meno. E non parliamo solo di parità di genere, ma pure di libertà di espressione, libertà di stampa, libertà d'impresa. Sono tutti caduti, a uno a uno, per concentrare sempre di più il potere nelle mani del sultano di Ankara.
Eppure, la Turchia dovrebbe fare i conti anche con la violenza sulle donne, che registra da anni numeri drammatici. Nel 2021, in poco più due mesi, sono già stati commessi 74 femminicidi, nel 2020 almeno 300, con 171 morti sospette, e nei due anni precedenti 474 e 440. Per non parlare delle donne spinte al suicidio perché ripudiate dalla famiglia per aver rifiutato un matrimonio combinato o per avere una relazione non gradita. Le autorità hanno in qualche modo cercato di porre un freno a questa situazione. Lo scorso anno, per esempio, sono state inflitte 5.748 condanne a pene detentive. Ma è una goccia nel mare se si pensa che nello stesso periodo 271.927 uomini, secondo il ministero dell'Interno turco, sono stati sottoposti a ordinanze restrittive.
Ma Ankara tira dritto e il vicepresidente turco Fuat Oktay ha affermato che il governo è impegnato nel portare la dignità delle donne «al livello che meritano», ma che «non è necessario imitare gli altri per questo obiettivo fondamentale. La soluzione è nelle tradizioni e costumi, in noi stessi». Sulla stessa linea il ministro della Famiglia, Zehra Zumrut Selcuk, la quale ha affermato che la Costituzione è la «garanzia dei diritti delle donne». Sul fronte opposto, l'opposizione va all'attacco sostenendo che la mossa di Erdogan allontanerà ulteriormente la Turchia dall'adesione all'Ue. Il partito popolare repubblicano (Chp) ha dichiarato che abbandonare il trattato significa «mantenere le donne come cittadini di seconda classe e lasciare che vengano uccise».
Sulla vicenda è intervenuto anche il Consiglio d'Europa, che ha definito «devastante» la decisione di Ankara. «Un'enorme battuta d'arresto ha detto il segretario generale Marija Buric , tanto più deplorevole perché compromette la protezione delle donne in Turchia, in tutta Europa e oltre».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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