Quel 30 giugno 1997 la regina Elisabetta decise di risparmiarsi le quindici ore di volo che separano Londra da Hong Kong. Aveva, già allora, una certa età, ma soprattutto non gradiva prender parte alla celebrazione di una sconfitta, quale comunque era la cessione della sovranità della colonia britannica, dopo oltre 150 anni, alla Cina comunista. Inviò a rappresentarla il figlio Carlo, che poco faceva per nascondere la pessima opinione che aveva dei bonzi del regime di Pechino: non mancò infatti, in una conversazione con il suo seguito a Hong Kong, di definire l'allora numero uno cinese Jiang Zemin e il suo senescente Politburo «delle vecchie statue di cera».
Sono trascorsi venticinque anni esatti, e chissà cosa direbbe il quasi re Carlo di Xi Jinping, se solo fosse stato invitato alla cerimonia da lui voluta. Xi se ne è ben guardato: in questo quarto di secolo tutto è cambiato, Londra rappresenta solo un passato da obliare e soprattutto la Cina ha fatto carta straccia delle sue promesse di mantenere per cinquant'anni a Hong Kong un regime semidemocratico. Con largo anticipo sul 2047, l'ex colonia somiglia ormai in tutto e per tutto al resto della Repubblica Popolare: gli oppositori politici sono in galera, i giornali non allineati sono stati chiusi, il sistema giudiziario ridotto a portavoce delle istruzioni diramate da Pechino così come il Parlamento locale, al quale ormai possono candidarsi soltanto i «veri patrioti». Xi ha risolto così, gettando la maschera e comportandosi da comunista quale rimane anche se incoraggia il libero (ma fino a un certo punto) mercato, tutti i problemi creati da quella larga maggioranza dei sette milioni di hongkonghesi, studenti in testa, che si ostinava a pretendere il rispetto dei propri diritti almeno quali noi li intendiamo in Occidente.
Ieri il tiranno di Pechino si è presentato a Hong Kong per raccogliere i frutti del suo lavoro di «normalizzazione». Sceso dal treno, è stato accolto in perfetto stile maoista da una piccola folla plaudente che sventolava ritmicamente le bandierine abbinate della Cina e del territorio che per altri 25 anni continuerà nominalmente a essere autonomo. I saluti ufficiali sono stati porti dalla signora Carrie Lam, la governatrice-proconsole uscente che in questi anni ha svolto il compito di far applicare a Hong Kong la volontà del partito comunista cinese: una volontà da un lato spietatamente repressiva di ogni opposizione, dall'altra di diffusione della propaganda destinata a plasmare le giovani generazioni fino a farle diventare identiche al resto dei loro coetanei cinesi. Per questo suo lavoro poliziesco e politico, Xi ha ringraziato calorosamente Lam. Nel suo discorso ufficiale, il leader cinese ha esaltato quella formula «un Paese, due sistemi» che in realtà egli ha cancellato, ma che è suo interesse continuare a fingere che esista: a Hong Kong, questo è il messaggio di Xi, esiste oggi la vera democrazia e si sta scrivendo un importante capitolo di quella storia di successo nazionale che la sua propaganda definisce «il ringiovanimento della Cina».
In cosa consista la nuova democrazia di Hong Kong lo ha fatto capire ieri la televisione globale cinese China Global Television Network (Cgtn), che trasmette in inglese in tutto il mondo la voce ufficiale di Pechino. Due studenti di Hong Kong rispondevano con affettato entusiasmo alle «domande del catechismo» di un distinto intervistatore.
Domande tutte mirate a far intendere che negli anni passati a Hong Kong si era malamente abusato del diritto alla libertà di espressione e di manifestazione, e che finalmente oggi gli abitanti della metropoli finanziaria godono della giusta pace garantita dall'armonia con i compatrioti cinesi. Sottinteso: i mai nominati leader della rivolta studentesca come Joshua Wong, che portavano nelle strade milioni di persone, stanno bene dove stanno. In galera.Il futuro appartiene a Xi, Hong Kong è rossa.
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