Zero visione politica e azioni tardive: Lamorgese, ministro rimasto prefetto

Al Viminale non è riuscita nel salto di qualità. E Draghi è dovuto intervenire

Zero visione politica e azioni tardive: Lamorgese, ministro rimasto prefetto

Lo chiamano principio d'incompetenza. A enunciarlo fu lo psicologo canadese Laurence Peter convinto che gli esponenti di una gerarchia salgano di livello fino al «massimo grado d'incompetenza». Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese ne è la dimostrazione. E non perché sia un cattivo ministro, come ripete Matteo Salvini, ma piuttosto perché non è un vero ministro. Non ha, cioè, mai spiccato quel balzo qualitativo che differenzia un bravo funzionario al servizio delle istituzioni da un uomo di Stato dotato d'una visione politica e della capacità di tradurla in azione.

Per capirlo non serve contare i 53mila 654 migranti sbarcati da quando l'ex prefetto di Milano è al Quirinale. Basta confrontare la sua azione politica con quella dei suoi predecessori. Di Marco Minniti e Matteo Salvini, personaggi diversissimi e antitetici si può dire tutto il bene ed il male possibile, ma non si può certo negar la loro capacità di tradurre in azione una visione politica. Minniti regolamentando le Ong e ristabilendo la zona di soccorso (Sars) libica permise la nascita dell'assai biasimata Guardia Costiera libica. Matteo Salvini con i decreti sicurezza tentò di mettere fuorilegge le navi delle Ong.

I 23 mesi della Lamorgese al Viminale sono invece scanditi dall'applicazione frammentaria e spesso ritardataria di norme rivolte semplicemente ad arginare le emergenze contingenti. Anche quando a Malta, nel settembre 2019, l'Europa le concesse il ricollocamento di qualche migrante per aiutare il neonato governo giallorosso e archiviare l'era Salvini, l'ex prefetto di Milano non seppe beneficiarne. Incapace di farsi ascoltare non solo a Bruxelles, ma anche a Parigi e Berlino, si ritrovò con un pugno di mosche in mano. Ovvero meno di mille ricollocamenti a fronte di 54mila sbarchi.

Anche perché, esaurito l'entusiasmo iniziale, tutti da Parigi a Berlino, passando per Bruxelles, scordarono le promesse fatte ad un ministro incapace d'incidere nel dibattito europeo.

Nel Mediterraneo non è andata meglio. Finché lei e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si sono rimpallati il dossier Libia abbiamo rischiato a più riprese di perdere il controllo d'una Guardia Costiera libica rivelatasi l'unico strumento adeguato per il controllo dei flussi migratori. Per rimettere tutto in bolla c'è voluto il viaggio in Libia di Mario Draghi della scorsa primavera. Un viaggio segnato dal definitivo trasferimento del dossier Libia nelle mani non più lungimiranti, ma sicuramente più «guidate» (grazie a Farnesina e Servizi) di Di Maio.

Sulla Tunisia la Lamorgese ha fatto anche peggio. Fin dal 2019 gli irregolari tunisini sono la nazionalità più consistente fra quelle sbarcate in Italia. Eppure nonostante il chiaro sintomo di una crisi imminente ha atteso l'estate 2020 per darsi una mossa. Ma anche lì, nonostante le successive missioni a Tunisi con la commissaria Ue Yilva Johansson non è mai riuscita a far scattare la solidarietà europea. E proprio la sua incapacità di farsi ascoltare a Bruxelles ha costretto Mario Draghi a prendere in mano la questione migratoria tentando, seppur inutilmente, di metterla all'ordine del giorno degli ultimi due Consigli Europei. Ma Mario Draghi non può far le veci del Ministro dell'Interno.

Soprattutto non alla vigilia di un autunno che, complice la débâcle afghana, trasformerà il corridoio balcanico in un arteria della disperazione. Su quel fronte sarà indispensabile un'iniziativa europea gestita per l'Italia non da un prefetto, ma da un ministro autorevole e capace di farsi ascoltare.

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