Sergio Cofferati è sempre meno amato dalla sinistra bolognese e non solo. Ma non rinuncia al suo stile. Accetta di correre il rischio di essere bollato come il sindaco italiano «più di destra». Non smette di sorprendere. Al suo carnet ha ora aggiunto il braccio di ferro con gli orchestrali comunali. È stato il sindacalista «dei diritti» e ha preso una decisione che - se fosse stata di Letizia Moratti, tanto per citare un nome - verrebbe considerata in contrasto con l'abc delle relazioni sindacali. Ha certamente ragione, perché qualunque forma di rivendicazione - tanto più in un servizio pubblico - deve tener conto del limite costituito dal rispetto dovuto agli utenti.
Eppure continua a colpire il divario fra il passato e il presente di Cofferati. Non è un discorso personale, per carità. Il problema sta altrove, sta nel contrasto tra quello che è stato il ruolo dell'oppositore e del leader di un movimento e quello che è ora il ruolo dell'uomo di governo. L'oppositore si consentiva tutto e non temeva di scivolare nella demagogia, il leader mescolava sindacalismo e politica, accarezzava perfino - lo fece di fronte al governo Berlusconi - l'ambizione di dare una spallata. Brandiva un tradizionalismo, che finì con lo schiacciarlo in un angolo massimalista. L'uomo di governo è l'opposto. Fa i conti con le regole del funzionamento di una città, difende il concetto di comunità, non consente le trasgressioni enunciate dalla sua vecchia scuola di pensiero. È consapevole del prezzo eccessivo delle mediazioni. È capace di scontentare.
Mostra il volto di una sinistra responsabile? Sembrerebbe di no, a leggere le critiche da cui è subissato e che provengono soprattutto dalla sua area. E - si badi - si tratta, secondo una cattiva abitudine, di critiche che non investono solo le sue scelte, ma anche il suo stile. Sono fastidiosamente personali. A volte sfiorano la soglia della delegittimazione. Succede che chi l'ha eletto non si riconosce più in lui. Che lo considera ormai al dilà dei confini consentiti.
Forse c'è anche una ragione di campanilismo. È un leader d'importazione, nato a Cremona e vissuto a Milano e a Roma. Ma soprattutto la ragione vera è che il sindaco di Bologna rappresenta un raro se non unico caso: ha gettato nella pattumiera l'armamentario della demagogia, dei luoghi comuni e del buonismo e si è messo, secondo logica, a fare i conti con le compatibilità del governo. Forse c'è qualche altro sindaco dell'Unione che si comporta come lui, a cercarlo magari c'è un presidente di Regione. Ma non certo un leader di partito, un ministro, un sottosegretario, tutti sempre pronti a inseguire quel che considerano il «senso comune» di una cultura e di una storia.
Gli viene contestato proprio questo reato: essere un uomo-simbolo della sinistra e comportarsi come un «nemico del popolo», dove per popolo si intendono interessi particolari, rivendicazione di diritti che tali non sono, perdipiù nella cornice di una «moralità superiore». Gli viene contestato di essere stato un maestro dell'agitazione e di pretendere ora il rispetto delle regole e dei limiti. Va preso sul serio e dovrebbero farlo per primi i suoi compagni di strada.
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